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 L'anatta (non sè)

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
admin Inserito il - 05/08/2010 : 12:06:35
L'anatta (non sè)

di Narayan Liebenson Grady

Discorso tenuto a Pomaia, il 3 settembre 1999

Traduzione a cura di Samira Coccon e Franca Zucalli

---

Stasera vorrei parlarvi di un argomento che è stato oggetto di un
corso da me tenuto a Cambridge l’anno scorso. È un modo per
condividere qualcosa di ancora attuale, che mi è molto caro. Il tema
del corso era il non-sé, l’anatta. Sembra strano affermare che è un
tema personale, eppure è così. L’ho trattato con un gruppo di persone,
circa 45 meditanti esperti, con i quali ho lavorato costantemente
negli ultimi 5 anni. I requisiti per essere ammessi al mio corso sono:
praticare da due o tre anni, avere esperienze di ritiri e mantenere
una costante pratica quotidiana. Tuttavia la maggior parte dei
partecipanti al corso praticava da un periodo compreso tra i 10 e i 20
anni. Ogni anno affrontiamo un diverso aspetto del Dharma, come i
brahmavihara, il Satipatthana Sutta e simili. Ho chiesto ai miei
studenti di che cosa volevano occuparsi, utilizzando una specie di
metodo democratico: ho dato loro tre argomenti tra cui scegliere, e
tutti hanno scelto il non-sé, l’anatta. Mi è parsa una risposta
positiva: si tratta di un tema difficile, ma ho ritenuto di accogliere
la proposta e lavorarci insieme. In questo gruppo c’è un forte senso
di gentilezza e rispetto, e con gli anni i componenti si trovano
sempre più a proprio agio nel manifestare se stessi agli altri membri
del gruppo. Sono anche persone dal carattere appassionato ed
entusiasta. Ad esempio, io dò dei ‘compiti per casa’ ogni settimana e
ogni volta il gruppo brontola in maniera plateale. Penso che sia un
buon segno, perché se avessero già deciso di non farli non
perderebbero tempo a lamentarsi.

Lo scopo del corso era provare a lavorare con un tema considerato
spesso piuttosto complesso, ma lavorarci in modo non teorico bensì
pratico, esperienziale. Non penso naturalmente che i concetti e le
teorie siano un problema, se usati correttamente: ci sono tradizioni
in cui si esamina il sé in modo molto analitico. Però avevo
partecipato a gruppi o riunioni in cui le persone litigavano per
decidere se ci sia o non ci sia un sé, e in casi simili sembra che ci
siano molti ego che volteggiano nella stanza cercando di investigare
il problema. Perciò dissi fin dall’inizio a tutti i membri del gruppo
che non avevo intenzione di litigare, perché non dovevamo dimostrare
nulla, dovevamo portare avanti una investigazione personale. Dissi
anche che ero incline piuttosto agli aspetti non concettuali,
intuitivi del tema. Si tende spesso o a discutere in modo troppo
dialettico di questo argomento o a ignorarlo del tutto
nell’insegnamento. Quando è troppo a lungo ignorato sembra che si
speri quasi che i meditanti gradualmente, naturalmente, lentamente si
accorgano che in realtà non esistono. Ma non ne sono convinta. Penso
che ci sia bisogno di essere orientati nella giusta direzione.

Preliminarmente invitai le persone del gruppo a non essere troppo
preoccupate del linguaggio e dell’uso del termine ‘io’. C’è a volte la
tendenza a sentirsi un po’ sciocchi, a dire ‘io’ o ‘me’ e poi ridere.
Dobbiamo usare la nostra lingua naturale, senza farne un problema
intrinseco. Iniziai il lavoro parlando del grosso rischio di
attaccarsi al vuoto, al non-sé. Il Dalai Lama disse una volta: "Se
dovete scegliere tra compassione e vuoto scegliete la compassione".
Non vorrei essere considerata troppo audace se provo a interpretare le
parole del Dalai Lama, ma credo che lui volesse dire questo: quando
c’è attaccamento non tanto al vuoto quanto all’idea o nozione di
vuoto, all’idea di non essere un sé, ci può essere la tendenza a
compiere azioni in qualche modo scorrette o dannose, con la
convinzione che tanto non c’è nessuno a causare sofferenza e nessuno a
soffrire. Chiaramente si tratta di un errore macroscopico. Allora il
motivo per cui scegliere la compassione è che almeno cercheremo di
compiere azioni giuste e salutari per gli altri. Ma non dobbiamo
necessariamente scegliere tra le due cose. Thich Nath Han ha detto:
"Meglio essere attaccati al sé che al non-sé". In altre parole,
causeremo molta infelicità con un attaccamento al non esistere.
Nagarjuna in proposito ha osservato: "I Buddha hanno definito il vuoto
come l’abbandono di tutte le idee, ma hanno anche detto che chi si
attacca all’idea del vuoto è incurabile". In questa investigazione non
vogliamo attaccarci né all’opinione "io ho un sé", né all’opinone "io
non ho un sé". Achaan Chah, che come molti di voi sanno fu un maestro
di meditazione thailandese, diceva che se noi pensiamo troppo a questi
problemi la mente ci scoppierà. Anzi disse: "La testa ci scoppierà".
Vediamo allora che l’attaccarci a una di queste due concezioni, "ho un
sé" o "non ho un sé", è in realtà un impedimento, ed entrambe nascono
da un senso di "io sono". Invece il nostro punto di riferimento
dovrebbe essere il cercare di vedere chiaramente senza proiezioni
mentali, di guardare l’esperienza senza l’idea di avere un sé o non
avere un sé, ma sperimentando direttamente la vita in noi stessi. Il
Buddha disse che nel vedere ci deve essere solo il vedere, nell’udire
solo l’udire, nel sentire solo il sentire, nel pensare solo il
pensare, senza aggiungere nulla. Vedendo le cose con chiarezza nella
nostra esperienza, possiamo cominciare ad accorgerci che la sensazione
di essere un’entità solida e durevole forse non è così corretta.

C’è un modello particolare che usavo nel gruppo. Vorrei brevemente
descriverlo e poi parlare di alcuni degli esercizi di consapevolezza
che assegnavo come compito a casa ai meditanti. Alcuni esercizi, in
particolare, mi sembrano l’aspetto più interessante del tema di cui
stiamo parlando, perciò cercherò di essere breve per quanto riguarda
il resto.

Il modello che ho usato è il modello del ‘piccolo sé’, del ‘sé
universale’ o ‘grande sé’ e del ‘non-sé’. Il ‘piccolo sé’ è il modo in
cui normalmente pensiamo a noi stessi, ed ha a che fare con i
contenuti mentali, i pensieri. Potremmo chiamarlo il ‘sé psicologico’.
È fondamentale per la pratica avere un sé psicologico in buona salute.
Con la pratica sviluppiamo un sé psicologico sano e un senso di ordine
interno, così come un ordine nel modo di vivere la nostra vita:
cerchiamo di non correre affannosamente qua e là a spegnare fuochi, ma
piuttosto impariamo a collegare le azioni che compiamo ai nostri scopi
e ideali.

Nella pratica, quello che facciamo è spostarci da un piccolo sé
frammentario a un sé unificato: è qui che si sviluppa il carattere e
si coltivano qualità particolarmente salutari. E forse è qui che
vediamo la personalità cambiare un poco attraverso la pratica. Ricordo
che quando ho iniziato a praticare la gente diceva: "Il tuo carattere
non cambierà, non sperarci". Invece debbo dire che, sebbene i maestri
avessero ragione quasi su tutto il resto, questa affermazione nella
mia esperienza non è risultata vera. Ho visto cambiamenti in persone
che praticano da un certo tempo e la gente mi dice che ci sono
cambiamenti anche in me, per fortuna.

Il successivo passo è il ‘sé universale’ o ‘grande sé’. Esso ha a che
fare sostanzialmente con la concentrazione o samadhi, e si realizza
con la sensazione che si sperimenta a volte nella pratica di essere
unito con l’universo, o anche di essere l’universo. Il problema però
consiste nel fatto che è molto, molto, molto, molto, molto, molto
facile (risate nell’uditorio, ndt) attaccarsi a questa sensazione
perché è estremamente piacevole. Perciò tanta gente ha pensato che
questa fosse la fine del sentiero e che non ci fosse nient’altro da
vedere. Ma la sensazione va e viene, non è permanente, non dura.
Inoltre c’è un elemento un pochino strano e contraddittorio: anche
quando ci si sente unificati con l’universo, si può affacciare
facilmente l’idea di fare un passo indietro e pensare: "Tu sei unito
con l’universo, gli altri no". In altre parole, la sensazione di
essere unico e speciale. Dobbiamo perciò fare il passo successivo,
altrimenti finiremo sicuramente con il soffrire di nuovo, oltre a
diventare antipatici e irritanti con gli amici. A questo punto entra
in gioco il non-sé.

Il non-sé è una sensazione di trasparenza, di apertura, di non
separazione. Lo sperimentiamo quando vediamo attraverso le cose e
riusciamo a dissolvere le idee fisse che abbiamo su noi stessi come
entità indipendenti e immutevoli. Con il non-sé non esiste la
sensazione di essere una persona saggia o compassionevole, non si
pensa in questo modo: "Sono saggio, sono compassionevole". Altri
possono vedervi così, ma il fatto non vi riguarda. Pensando "sono
saggio" vi è naturalmente attaccamento a qualcuno che è saggio. Con il
non-sé c’è una recettività aperta alla vita, un vero e durevole senso
di libertà e di pace anche quando la situazione è difficile e
tutt’altro che pacifica. Con il non-sé c’è un senso di connessione
senza attaccamento, la mancanza di un continuo autoriferimento. Con il
non-sé viene meno la continua richiesta al mondo: il mondo mi deve
questo e quest’altro, il mondo deve essere in tal modo per andarmi
bene. Naturalmente tutti abbiamo delle idee su come sarebbe un mondo
perfetto. Quando abbiamo idee personali sul mondo, i diversi mondi si
scontrano. Voglio dire che la vostra percezione personale del mondo
potrebbe essere simile alla mia, ma un poco diversa. E forse
litigheremmo per questo. Magari sarebbe solo una piccola discussione,
perché siamo meditanti, tuttavia avremmo una discussione.

Inoltre non crediamo più nell’‘io’, come una persona che va da qualche
parte, e neanche crediamo che questo io verrà illuminato. Al
contrario, è presente una morbidezza, una ricettività, un’apertura.
Potremmo dire che quando dimentichiamo noi stessi, quando non c’è il
‘sé’, al suo posto c’è una conoscenza luminosa: ci muoviamo da
qualcosa di molto limitato a qualcosa di espanso.

Un altro aspetto da non trascurare è la necessità di mantenere un
equilibrio tra il punto di vista relativo e quello assoluto. Da un
punto di vista relativo naturalmente operiamo come individui distinti.
Quando mi dite: "Senti, Narayan" io non faccio finta di non essere
Narayan, cerco di essere come Narayan e rispondo: "Sì, dimmi". Ma
senza una comprensione del vuoto è molto facile identificarsi con le
varie condizioni che sorgono e, a causa di questa identificazione,
attaccarsi a esse e naturalmente soffrire quando le condizioni
cambiano. Quando ci ritroviamo malati, o vecchi, o vicini alla morte,
soffriamo. Una comprensione o riconoscimento dell’assoluto permette un
senso di comprensione, di espansione: la vita diventa più fluida e più
aperta.

Tuttavia, se dimentichiamo il relativo e pensiamo che non sia
importante, e ci perdiamo nel vuoto – non possiamo veramente perderci
nel vuoto, ma piuttosto ci perdiamo nelle nostre idee sul vuoto –
allora il risultato è un senso di indifferenza e separazione. Potremmo
ritrovarci a non soffrire troppo, ma scopriremmo anche che molte
persone che amiamo sono assai arrabbiate con noi, perché non ci
interessiamo ai problemi della vita. Si potrebbe anche dire che quando
ci si attacca al relativo le cose sono troppo importanti per noi,
mentre quando ci si attacca troppo all’idea del vuoto le cose
diventano troppo poco importanti. Perciò occorre ricordare sempre che
esiste un equilibrio tra i due atteggiamenti.

Vi farò un esempio pratico quotidiano, perché so che sembra un
concetto troppo vago. Tempo fa sedevo in meditazione nella mia stanza,
in uno stato molto piacevole, proprio quella situazione distesa e
gioiosa in cui nulla accade, nulla nella mia mente che mi turbasse, e
solo consapevolezza: apparivano dei pensieri, apparivano dei suoni,
apparivano delle immagini e così via. Cominciai a un certo punto a
sentire un suono particolare e un poco alla volta capii che era
Michael in cucina, che raccoglieva la spazzatura da portare fuori. E
capii che la vera azione saggia era alzarmi ed aiutarlo con la
spazzatura. Non che lui si sarebbe arrabbiato se non lo avessi fatto:
siamo stati insieme abbastanza a lungo da avere sviluppato pazienza
per le reciproche stranezze, ma il fatto è che io porto fuori
l’immondizia molto molto raramente. Allora in una simile occasione non
bastava solo udire, non poteva essere ‘solo suono’.

Parliamo dei compiti a casa. Uno degli esercizi assegnati aveva a che
fare con dukkha, che traduciamo adesso per semplicità con
‘sofferenza’. La consegna era: quando nel corso della settimana ti
accorgi che stai soffrendo in un qualsiasi modo, mentalmente o
fisicamente, rifletti sul fatto che in qualche posto altri stanno
soffrendo esattamente come te. La chiave di questo esercizio ha a che
fare con la parola ‘esattamente’. Non dobbiamo riflettere su coloro
che soffrono forse più di noi, perché allora potrebbe nascere un senso
di colpa, e la sensazione che non meritiamo di soffrire, e in ciò
sarebbe presente la percezione del ‘sé’ e degli ‘altri’. In questo
esercizio non si deve neanche riflettere su coloro che soffrono meno
di noi, perché un pensiero simile creerebbe risentimento e
auto-compatimento, e potrebbe darci l’impressione di essere vittime. È
molto interessante invece, e corrisponde a un fatto reale, renderci
conto che in questo vasto universo ci sono esseri che sperimentano
proprio ciò che stiamo sperimentando noi nello stesso identico
momento. È un esercizio molto utile, da fare ogni volta che
sperimentiamo sofferenza, perché interrompe la sensazione di "io sto
soffrendo", e aiuta a sperimentare il fatto che "la sofferenza sta
accadendo".

Un altro degli esercizi per casa aveva a che fare con il notare la
differenza tra avere un’esperienza e "io ho un’esperienza", il che
significa guardare la differenza tra il pensiero e il reale accadere
dell’esperienza stessa. In altre parole guardare le particolari
caratteristiche dell’esperienza, formulare pensieri quali: "io sono un
buon meditante", "io sono un cattivo meditante", "io sono felice", "io
sono triste"; invece: "la felicità sta accadendo", "la tristezza sta
accadendo". Così pure: "sono irritato, sono in pace" o invece:
"l’irritazione sta accadendo, la pace sta accadendo". Ancora: "sono
bloccato nel traffico" o invece: "il traffico è bloccato" e così via.
Spero di aver reso l’idea.

Facendo attenzione alla realtà si lascia da parte la contrazione, la
sofferenza dell’"io sono". Quando c’è contatto con l’esperienza reale,
quando c’è satipañña, c’è libertà dall’io-mio. Quando siamo solo
esperienza e lasciamo cadere l’"io sono", ci scopriamo interiormente
normali e naturali, invece che confusi, dispersi e disturbati. C’è una
parola in thai, kuam huang, che significa un vuoto che include una
sensazione di libertà, di agio, di apertura e di pace. Mentre al
contrario l’istinto di afferrarsi a se stessi dà un senso di
oppressione, di bruciore, di contrazione.

Se gli esercizi che ho descritto vi sembrano utili e interessanti,
provateli. Terminerò con una citazione dal Buddha:

C’è l’azione ma non chi la compie, c’è la sofferenza ma non chi
soffre, c’è il sentiero ma nessuno per intraprenderlo, c’è la
liberazione ma nessuno che la ottenga.

Allora, possiamo rilassarci?








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