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 Per cosa combatte il Tibet

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
admin Inserito il - 18/09/2009 : 11:20:46
Per cosa combatte il Tibet

di Enzo Bianchi

«Etichettando come nemici le autorità cinesi, potremmo pronunciare una
ipocrita condanna della loro brutalità, ma non è così che si ottengono
la pace e l’armonia». Risuonano tragicamente attuali queste parole che
il Dalai Lama va ripetendo ormai da 50 anni - una delle occasioni più
vicine a noi nello spazio e nel tempo è stata la sua conferenza a
Milano nel dicembre scorso su «La pace interiore e la nonviolenza» -
ma proprio per questo il poco che ci è dato di conoscere degli eventi
di questi giorni in Tibet riveste una drammaticità estrema.

Un popolo pacifico, con una propria lingua e cultura - intesa come
modo di porsi di fronte agli eventi della vita quotidiana e alle
attese ideali - con una religione intrinsecamente nonviolenta, subisce
da decenni aggressioni di ogni tipo, le più pericolose delle quali
sono quelli interiori e morali: il fatto che periodicamente folle di
giovani e meno giovani, di monaci e di civili si ribellino con
proteste prive di qualsiasi possibilità di successo, andando incontro
a feroci repressioni, può sorprendere noi occidentali così devoti al
calcolo, all'opportunismo e alla Realpolitik, ma dovremmo chiederci se
in queste sommosse, regolarmente soffocate nel sangue, non ci sia
qualcosa di più profondo della forza della disperazione, qualcosa di
ben più nobile di una umana, comprensibilissima esasperazione.

C'è, io credo, un'affermazione forte di una vita «altrimenti», di una
diversità che non accetta di scomparire: decenni di indottrinamento
ateista non hanno arrestato il crescere della popolazione nei
monasteri, le uniche comunità umane che aumentano i propri membri non
per generazione fisica ma per libera adesione interiore; anni di
sistematica immissione di migliaia di persone di etnia, lingua e
costumi diversi non hanno intaccato l'identità profonda di un popolo;
lo sfruttamento violento e sistematico del sottosuolo e
l'emarginazione della pastorizia non hanno minato il rapporto dei
tibetani con la loro terra, così come non lo ha attenuato l'esilio
obbligato cui sono stati costretti a milioni; la chiassosa invadenza
del capitalismo di Stato e il volgare fascino del «mercato» con i suoi
miti non riescono a sfondare al di là delle strade commerciali delle
città principali.

È proprio questa vita tenacemente differente che ha sussulti periodici
di riaffermazione, sussulti che non tengono conto di strategie o
tempistiche «ragionevoli», ma che sono come l'incontenibile ricerca
della boccata di ossigeno di chi è costretto a vivere in apnea: in
simili condizioni non si calcola se nei polmoni invece dell'aria
rischia di entrare acqua, fango o terra, non si riflette se il
risultato può essere una repressione ancora più dura; si anela
unicamente all'ossigeno, a quell'aria pura che è il proprio patrimonio
vitale.

Credo che i monaci e i civili tibetani non si ribellano nella vana
speranza che il mondo occidentale metta da parte i propri interessi
mercantili e obblighi la Cina ad alcunché: ben conoscono, per averli
sperimentati a più riprese, la nostra attitudine ai silenzi complici,
il nostro gridare sterili condanne di principio, il nostro imbarazzato
calcolo di opportunità e commerci, la nostra capacità di voltare la
testa dall'altra parte, il nostro desiderio che lo spettacolo, anche
olimpico, continui.

No, si ribellano per affermare - costi quel che costi, al di là di
ogni ragionevole speranza - che ci sono principi per cui vale la pena
vivere e morire, si rivoltano per ribadire che esiste «qualcosa per
cui vivere, abbastanza grande per cui morire», manifestano per
un'esigenza intima di giustizia, di affermare e compiere ciò che è
giusto, a prescindere dalla possibilità effettiva di ottenere la
giustizia invocata.

In questo senso il monachesimo è un fenomeno emblematico: i monaci del
Tibet, come quelli birmani, come i bonzi del Vietnam, come i monaci
cristiani in Algeria o in Iraq, sono uomini impegnati in una
disciplina che tende all'umanizzazione di tutti attraverso la rinuncia
al potere, al possesso, alla violenza, e perciò sono uomini che
lottano ogni giorno per disarmare se stessi, per far tacere la propria
aggressività e così indicare a tutti ciò che parrebbe utopico, senza
luogo di realizzazione, ma che invece è possibile, anche se
mondanamente non vincente.

Sì, i veri monaci sono quasi sempre umiliati, a volte perseguitati ma,
anche se obbligati a tacere, gridano con il loro silenzio la verità,
una verità a servizio dell'uomo. Ed è in questa prospettiva che mi
paiono drammaticamente preoccupanti le notizie sulle violenze compiute
non tanto dai monaci - infatti, nonostante la meticolosa cernita delle
immagini compiuta dalla televisione di Stato cinese per imputare
esclusivamente ai tibetani le violenze, l'unico gesto violento di cui
è co-protagonista un monaco è l'abbattimento di una porta a calci -
quanto da giovani tibetani nei giorni scorsi.

Temo sia una crepa pericolosa nella cultura tibetana della
nonviolenza, un sintomo di una certa presa che la violenza
quotidianamente istillata in maniera più o meno esplicita comincia ad
avere anche in un popolo a essa fondamentalmente alieno. Non ci è
lecito giudicare dall'alto del nostro distacco fisico, emotivo e
personale il comportamento di alcuni, relativamente pochissimi,
manifestanti, ma dobbiamo temere il possibile degenerare della «forza»
della nonviolenza in azioni violente: sarebbe davvero un tragico salto
di qualità del «genocidio culturale» denunciato dal Dalai Lama.

Estremamente significativo in questo senso l'atteggiamento che sta
tenendo il Dalai Lama in questi giorni: reiterata domanda di dialogo,
riaffermazione della volontà di autonomia e non di indipendenza,
nessun boicottaggio delle Olimpiadi e perfino disponibilità a
dimettersi se la situazione dovesse finire fuori controllo: la verità
della pace non può accettare di farsi servire dalla violenza. Sì,
l'uccisione della diversità ostinata di una cultura di pace è quanto
anche i tibetani temono ancor più della morte fisica.








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