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 Note sull’avversione

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
admin Inserito il - 21/09/2009 : 10:30:23
Note sull’avversione

di Letizia Baglioni

L’avversione è spesso percepita come l’ostacolo dominante alla pratica
meditativa, o in generale al benessere nella vita quotidiana,
soprattutto nelle fasi iniziali di un tirocinio contemplativo o di un
periodo di meditazione intensiva. Non è che desiderio e
confusione/ignoranza non siano presenti (nella forma di aspettative,
dubbio e torpore ad esempio) ma l’avversione sembra avere un effetto
particolarmente inibente o disturbante nei confronti del
raccoglimento, sembra annunciare un’immediata eclissi della fede e
coprire gli effetti degli altri inquinanti; o semplicemente emerge con
più evidenza, dato il suo carattere apertamente spiacevole.

Svalutazione, biasimo e sfiducia, impazienza e paura del disagio sono
etichette concettuali frequenti per descrivere un iniziale incontro
con gli effetti cognitivi ed emozionali dell’avversione, che è
sostanzialmente una modalità o qualità dell’intenzione, un modo di
esprimersi della volontà. Quando non viene riconosciuta direttamente,
le impressioni che genera vengono proiettate sul soggetto (il
meditante) e immaginate come qualità negative personali da correggere,
di cui preoccuparsi ecc.; oppure si condensano attorno all’oggetto di
meditazione (ad esempio il respiro), per cui l’attenzione, trovandolo
sgradevole o difficile a maneggiarsi tenderà a evitarlo o a lasciarlo
cadere.

Se c’è sfiducia in se stessi e l’attenzione non dimora volentieri sul
suo oggetto mancano le premesse per il retto raccoglimento (samma
samadhi) e quindi l’ambiente necessario per un qualunque
approfondimento contemplativo1. Quando si notano effetti del genere è
importante ricordare e applicare la modalità della saggezza, che
risolve lo stallo senza bisogno di cambiare le condizioni ma
ridefinendo la situazione in modo da renderla lavorabile. È la
modalità per cui si riconosce semplicemente: “C’è avversione”. Non c’è
nulla che non vada, né in me né nel respiro né in nessun’altra cosa:
soggetto e oggetto recuperano la propria innocenza originaria. Il
respiro è così com’è, la mente è così com’è. Al di là delle
definizioni.

L’avversione è percepita come ostacolo nella misura in cui comincia a
diventare cosciente e non è più semplicemente ignorata o agita in modo
meccanico: laddove prima ad esempio imputavamo all’irrequietezza, alla
noia o all’indolenzimento l’interrompere o saltare una seduta, ora
sentiamo che l’irrequietezza, la noia e l’indolenzimento sono
condizioni spiacevoli, e che la motivazione – l’impedimento – è il non
volere l’esperienza spiacevole o il timore di poterla ripetere, ossia
l’avversione. Motivazione del tutto ovvia e legittima, secondo il
comune modo di pensare; e se non ci fosse qualcosa in noi che vuole
vederci chiaro, che è interessato a capire meglio e a essere più
libero – che, in altri termini, vuole continuare a meditare – potremmo
tranquillamente fermarci lì, come difatti spesso avviene.

E non sarebbe un gran male come invece lo è, io credo, tirare avanti
passando sopra all’avversione e alle sensazioni spiacevoli senza
penetrarle con la comprensione e quindi scioglierle, andare al di là,
accedere a un nuovo modo di vedere e sentire l’esperienza che
arricchisce e risana. Si può restare bloccati in un limbo per cui la
meditazione diviene un mero compito, un’ennesima cosa che “dovrei
fare” ma “non riesco a fare”, priva di ogni dolcezza e interesse
esplorativo. O un oggetto da prendere e mollare a seconda dell’umore o
della convenienza del momento. Spesso, di quello che penso sia l’umore
o la convenienza del momento, dato che l’avversione mi porta a reagire
e mi impedisce di sentire come sto e di cosa ho veramente bisogno.
Trattiamo così anche gli esseri viventi, a volte, inclusi noi stessi.

Il passo successivo avviene quando intuiamo che: a) l’avversione è una
condizione che può a sua volta essere contemplata, ossia resa oggetto
di consapevolezza; b) che l’avversione/paura domina tante delle nostre
scelte, reazioni e modi di esprimerci nella vita quotidiana, che ciò
ha conseguenze dolorose, e che non siamo più disposti a ignorarlo o
rassegnarci; c) che la spiacevolezza dell’irrequietezza e del resto
(per rimanere con l’esempio) non è una realtà assoluta e immutabile,
ma è più o meno intensa, duratura e tollerabile a seconda di una serie
di fattori e circostanze; d) che uno di questi fattori è il modo di
recepire e rispondere alla spiacevolezza: in altre parole, iniziamo a
vedere che la qualità dell’attenzione e dell’intenzione ha effetti
concreti, nel senso di generare benessere o malessere, libertà o
schiavitù.

È il gioco di attenzione e intenzione a generare significati, e il
significato che attribuiamo ai dati dell’esperienza è determinante nel
farcela vivere come nemica, amica o indifferente.

Nasce allora un genuino interesse per il messaggio del Buddha:
attenzione e intenzione possono essere educate e purificate per il
bene nostro e dell’intero di cui siamo parte indivisibile; qui abbiamo
scelta, laddove sensazioni, reazioni, stati d’animo e pensieri “ci
accadono” come effetti sui quali non abbiamo – né ci si chiede di
avere – alcun controllo, alcuna voce in capitolo. E nasce un genuino
interesse per la meditazione, che ci consente di esplorare – di
toccare con mano – quali modi di rapportarci all’esperienza fanno del
bene e portano alla pace e quali tengono in piedi dolore e confusione.
Allora è possibile che il “no” dell’avversione non sia più l’ultima
parola, il segno di un limite che non può essere varcato, ma un
invito: qui c’è qualcosa che vuole essere riconosciuto, sentito,
compreso. Tradizionalmente si dice che il Dhamma, la verità, è
ehipassiko: “vieni e vedi”; inoltre si dice che è sanditthiko,
akaliko: presente qui e ora, senza tempo. Risvegliarsi all’avversione
è Dhamma – è la verità del momento; ci tiriamo indietro, o andiamo a
vedere? Ora?

Percepisco l’avversione come uno spazio corrugato, ispido, spinoso o
frastagliato, come una contrazione che tenta di espellere, che non
vuole tenere; come uno spingersi in fuori, un rigonfiarsi per spingere
fuori o tenere lontano.

L’avversione tenta di vomitare qualcosa che è già dentro o impedire
l’accesso a qualcosa che sta fuori. Una contrazione del corpo, spesso
nel petto o nella gola, o a volte nella testa, nella mascella, che è
un dire di no, un voltare le spalle, un troncare di netto o un lasciar
cadere, un non voler sapere, un non voler avere niente a che fare.

Una durezza, una rapidità brusca nei gesti quotidiani anche non
apertamente aggressivi, nel manipolare gli oggetti; un voler essere
altrove il prima possibile. Ma l’avversione può essere anche un
ribollire della superficie che tiene le cose in sospensione, impedendo
loro di calare a fondo e depositarsi.

L’avversione è anche un saluto che vuole non tanto salutare l’arrivo
dell’altro quanto inchiodare l’altro dov’è, tenerlo confinato nel suo
spazio, nel suo ruolo di oggetto separato e diverso da sé. È un dire:
ti vedo, ti riconosco, resta lì. L’avversione come difesa di un
confine minacciato da cose interne o esterne: idee o situazioni,
emozioni o persone.

In questo senso l’avversione è una qualità che colora in certi momenti
l’attenzione/consapevolezza: un riconoscere magari con chiarezza ma
senza quella curiosità silenziosa che prelude a una relazione più
intima, più fiduciosa, più serena e liberante con le cose. Mi pare di
sapere già come andrà a finire, e mi premunisco. Ma quando “so già”,
il cuore si appesantisce, si chiude, si accascia. Il fuoco
dell’avversione si spegne nella mota dell’indifferenza, della
depressione, del vittimismo.

A questo punto sto operando al livello di concetti e astrazioni (io,
lui, la tal cosa, la tal situazione...) e ho perso il riferimento
all’una o l’altra delle quattro basi per la coltivazione della
consapevolezza (satipatthana), ho perso il riferimento al processo nel
momento presente (ora c’è questo, e dà questa sensazione, si comporta
così, si associa a questo, si intensifica o cessa quando…)

Quando l’intenzione inclina verso il Dhamma – verso il lasciar andare
il peso del noto per aprirsi alle cose così come sono – acquista una
dolcezza, e una forza, straordinarie. La dolcezza dell’intenzione è
effetto naturale della rinuncia: rinuncia alla volontà di cambiare o
sopprimere, controllare o spiegare, evitare o guadagnare qualcosa. Si
rinuncia per stanchezza e compassione, come quando si depone un pacco
pesante per riposare le mani contratte e le braccia indolenzite. La
dolcezza dell’intenzione è essenziale per accostare e rassicurare
l’avversione, perché non si chiuda a riccio e non esploda
aggressivamente, perché ci si riveli tutta nei suoi modi e nelle sue
ragioni.

La forza è essenziale per sostenere e contenere un campo saturo di
sensazioni, che rischia a ogni attimo di essere bucato e lacerato da
impulsi ad agire, parlare, correre appresso a pensieri e fantasie.
Sostenere e contenere il campo dell’osservazione consente all’energia
dell’avversione di restare in casa, di essere riguadagnata al cuore e
alla vitalità del corpo. Questa è la cessazione dell’avversione, non
repressione, ma rilassamento della volontà e liberazione di energia.
Sotto l’effetto dell’ignoranza l’energia tende invece a generare e
nutrire oggetti sui quali fissarsi e scaricarsi: percezioni e immagini
di situazioni o persone – o perfino di sentimenti e idee – vissute
come definite e permanenti, come rappresentazioni credibili di una
realtà separata dalla mente. E questo genera tensione e svuotamento,
disagio fisico e mentale. Genera dukkha.

Da dove viene la forza? Di nuovo, essenzialmente dalla rinuncia:
l’energia non si disperde più in intenzioni confuse, si raccoglie nel
momento presente come acqua che riempie a goccia a goccia un
contenitore senza crepe. Poi, dall’evocare la fiducia fondamentale.
Saddha – ossia fede, fiducia – è la prima delle cinque facoltà
spirituali, cinque funzioni o modalità della mente che si supportano a
vicenda e manifestano l’incondizionato. Fiducia nella elasticità e
invulnerabilità dello spazio fondamentale della mente, che è puro
conoscere.

All’inizio, basta ricordare e affidarsi, senza pretendere di dover
provare o capire qualcosa di speciale: possiamo ripeterci la parola
“Buddho” – Sveglio – ciò che conosce, ciò che riconosce l’avversione
ma non è avversione. Ancorandoci alla fermezza della postura – seduti,
in piedi o camminando – divenuta nei mesi e anni di esercizio
quotidiano espressione tangibile della costanza della nostra
aspirazione: essere presenza, piuttosto che fare o diventare,
lasciando che le condizioni facciano il loro corso. Possiamo
riflettere sulla natura dello spazio – quello esterno o quello
interno, frammenti di silenzio e di spazio fra i pensieri – per
rievocare quella qualità: così come lo spazio non è danneggiato o
deformato dall’andare e venire di suoni, odori, forme e attività che
lo attraversano, per quanto massicci, sgradevoli o violenti possano
essere, così la turbolenza dell’avversione e dei suoi effetti non
alterano la natura del conoscere. La fiducia fondamentale riguarda
anche le condizioni, la loro sostanziale innocenza: il Buddha sorride
perché le vede tutte non come nemiche, anche quelle spiacevoli, ma
come Dhamma – espressioni della vita nel momento presente.

Infine, la forza si consolida massaggiando e vitalizzando
l’attenzione. Esercitandosi ad aderire a un solo oggetto in mezzo ai
venti e alle maree degli stimoli e umori cangianti, l’attenzione
acquista tono e freschezza, guarisce pian piano dall’atrofia e
passività abituali. Quando l’attenzione è sensibile e viva, ed è
sostenuta da una ferma intenzione, ha le risorse per accogliere gli
effetti dell’avversione nel corpo senza deprimersi. Può cogliere le
sensazioni nella loro natura pulsante e cangiante, e trovare interesse
e gioia in questa contemplazione. Può ancorarsi al ritmo e all’energia
del respiro per lenire e soffondere di benevolenza tensioni e nodi.
Custodire l’attenzione durante la giornata ed esercitarla alla
stabilità col suo oggetto nutre la forza.

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(Nota)

1. È in questo senso che l’avversione si manifesta come uno dei cinque
impedimenti al raccoglimento (nivarana), insieme al desiderio di
stimolazione sensoriale o intellettuale, al torpore/indolenza,
all’irrequietez­ za/preoccupazione e al dubbio o speculazione
concettuale. In diversi luoghi dei discorsi del Buddha si mette in
evidenza che per samadhi non si intende uno sforzo di concentrazione
isolato ma l’esito naturale di un insieme di condizioni
interdipendenti: prima fra tutte l’apprezzamento per se stessi e la
mancanza di rimorso che nascono da una vita orientata alla gentilezza,
alla compassione, all’onestà, alla generosità e alla semplicità nei
bisogni.

Ciò include la capacità di riconoscere apertamente eventuali mancanze
sul piano etico, perdonare e stabilire o ristabilire la retta
intenzione e il retto sforzo in quell’area. Quando considero la bontà
delle mie azioni e intenzioni (e qui il Buddha non parla di altruismo
eroico o di utilità sociale ma del semplice e nient’affatto scontato
astenersi dal nuocere, così com’è definito scarnamente dai cinque
tradizionali precetti per i laici!) posso senz’altro sentirmi
fortunata e nutrire serena fiducia nella mia natura originaria.

E se non è così, posso tranquillamente attribuire sentimenti di
inadeguatezza e autocritiche non a un che di negativo o carente
intrinseco alla mia persona o (sostanzialmente sulla stessa linea) ai
danni permanenti di qualche trauma infantile, bensì all’identificarmi
con gli effetti oscuranti dell’avversione, dell’invidia, dell’orgoglio
e delle altre afflizioni mentali (kilesa). E posso dedicarmi con
entusiasmo a riconoscerne la natura contingente, impersonale e vuota,
piuttosto che credere di dover risolvere un problema che io stessa
creo attraverso la mia infelice interpretazione dei fatti. Si dirà che
la nostra cultura non sembra favorire un’autostima basata sui valori
del cuore e sulla fondamentale dignità umana, ma pone modelli assai
sofisticati, complessi e diversificati che spesso ci lasciano confusi
e fomentano conformismo o ribellione. Anche in questo caso, forse
ancor di più, ancorarsi alla linearità del ragionamento del Buddha e
lasciar sedimentare pazientemente gli effetti della confusione mi
sembra l’approccio più sicuro per chi si accosta alla meditazione.






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