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Inserito il - 02/10/2009 : 11:02:03 Le vacanze, Suzuki e la disperazione
di Andrea Borelli
Mi sono sempre rapportato malissimo alla morte.
Fin da piccolo non l'ho mai accettata: l'addio definitivo senza possibilità di ritorno mi ha sempre creato sgomento e rifiuto.
Questa resistenza mi accompagna da anni.
A volte, durante l'infanzia, l'adolescenza o in età più matura, emergeva come un masso che non potevo evitare. E ci andavo a sbattere contro.
Sono stati gli addii definitivi di amanti amate o la morte di persone care a farmi andare a sbatterci.
A volte anche solo il pensiero o il ricordo di simili esperienze era sufficiente a farmi sentire una fitta al cuore o al fegato, a togliermi il fiato senza avere nessuna certezza di poter respirare ancora.
L'ho sempre considerata una mia mancanza, un mio punto debole da dover quasi nascondere.
Disperazione, ecco la parola che descrive questi momenti. Una enorme, inconsolabile disperazione verso l'ineluttabile, che mi provocava un senso di ingiustizia e di impotenza.
Le immagini strazianti del momento dell'addio le vivevo dolorosamente. A essere sinceri, molto più che dolorosamente, sia che fossero state reali o prodotte da mie fantasie o viste al cinema o lette in qualche libro.
Mi dicevo: "Gli altri non piangono o si commuovono come me, anche per scene a volte dozzinali, non si fanno dei 'viaggi' così pesanti dentro la morte e la sofferenza. O sono più insensibili, cosa non per forza negativa, o hanno una mano più leggera di me, un tocco più lieve e maturo nell'affrontarle".
Perfino durante un ritiro in solitudine, è emersa questa paura. Sono rimasto seduto a guardarla, vedendo gli aspetti fluttuanti del dolore, capendo quanto concorreva la mente a dargli forma, sentendo che è la paura del dolore a rendere intollerabile il dolore, che forse lasciandoci semplicemente soffrire quando è il momento, è l'unica terapia e via di uscita dal dolore stesso.
Mi trovavo su un'isola tropicale con la mia compagna, durante il nostro periodo di vacanza e mi ero portato diversi libri.
Cetriolo storto di D. Chadwick, una biografia del maestro zen Shunryu Suzuki-roshi, era quello che mi attraeva di più e fu il primo che lessi.
Durante le ferie si ha la possibilità di usare il grande spazio-tempo a disposizione per andare più in profondità e per interrompere gli automatismi delle nostre vite. Qui il non-fare può diventare una possibilità e una realtà, anche se a volte non si ha la forza di stare davanti a questa vastità, per cui ci riempiamo la giornata di tanti piccoli "fare". Ma accolsi volentieri la sfida.
Quando finii il libro il mondo non era più lo stesso per me.
Non che ci avessi trovato dentro 'La Dottrina'. Anzi, era proprio perché era totalmente umano e anti-dottrinario che mi aveva colpito.
Non so perché, ma aveva dribblato i giudizi della mente ed era arrivato dritto al cuore.
In fondo era solo una biografia, per giunta non edulcorata, poiché metteva in luce anche aspetti discordanti della sua esistenza. Ma l'immagine e l'insegnamento di questo piccolo grande uomo mi aveva toccato profondamente.
Alcuni insegnamenti sono entrati più in profondità. Non che non li conoscessi o non li avessi mai sentiti prima, ma era come viverli con una freschezza nuova, da un'angolazione diversa.
Ho capito che si può essere totalmente umani, con le nostre piccole e grandi contraddizioni ed essere al contempo dei Buddha illuminati. Che non c'è distinzione fra le due cose. Che anche nelle nostre bassezze e incongruenze c'è spazio per la buddhità. Che non dobbiamo arrivare alla perfezione per sentirci dei Buddha. Che in fondo siamo già dei piccoli Buddha che lavorano, praticano, sbagliano, cadono, piangono, si rialzano, ripraticano, amano, odiano.
Proprio in mezzo a questa dualità, il Buddha in noi si siede e lavora con la pratica: scintille di nirvana in mezzo al samsara.
L'amicizia con i nostri aspetti duali ci porta più vicini alla Verità che non la ricerca della perfezione, dell'illuminazione.
Ho bevuto come un nettare l'insegnamento essenziale del libro e ne fui profondamente grato, ma l'onda lunga non l'avevo prevista.
È arrivata dopo qualche giorno, dopo un colpo di sole.
Ero con la testa sotto al rubinetto dell'acqua fresca, con la febbre a 39°per una insolazione, mentre la mia compagna cercava di aiutarmi ad abbassare la temperatura tenendomi la testa sotto l'acqua e massaggiandomi i capelli.
A un tratto mi risuonò come un dolore sordo il ricordo degli ultimi istanti di vita di Suzuki, quando egli con le sue ultime forze tese il braccio verso il suo discepolo prediletto, mentre questi gli strinse la mano e appoggiò la sua fronte sopra quella del maestro. In questo modo Suzuki roshi se ne andò definitivamente da questo mondo, con leggerezza, quasi in punta di piedi.
Con una serie di flash-back incontrollati, rivissi gli ultimi istanti di vita di mia madre e la sofferenza per lo strappo della morte invase il mio spirito, devastandolo. Cominciai a singhiozzare, tra l'acqua fresca sul capo e la testa bollente e le mani caritatevoli della mia compagna e la mia condizione di vulnerabilità e la vulnerabilità di tutti gli esseri ed il dolore dell'abbandono causato dalla morte, la sua ineluttabilità e definitività. Era di nuovo lì davanti a me: la disperazione.
Non ho mai avuto rapporti amichevoli con essa. Nonostante cercassi di farlo non ci ero mai riuscito veramente. Quando potevo la evitavo e quando non potevo ne soggiacevo.
Consideravo il provare disperazione davanti all'ultimo addio una mia debolezza e forse la pratica avrebbe fatto sì che io non la provassi più. Era come se la considerassi un ospite sgradito di cui liberarmi e la pratica della meditazione fosse il rimedio, la medicina per questo.
In questo crogiuolo di emozioni, di febbre, di debolezza, di acque che scorrevano, nacque qualcosa.
Ero incerto su cosa fosse ma lentamente si delineava sempre più: era una nascita, un dono. Era la comprensione che la disperazione andava bene così com'era. Non c'era un modo di soffrire ‘giusto’ ed uno ‘sbagliato’. Non c'era un limite oltre il quale la sofferenza non era più giusta, più gestibile. Se c'era disperazione-non-gestibile, ok, andava bene così. Non ero io inadeguato se non riuscivo a sopportare quel dolore, perché non c'era un modo 'giusto' per affrontarlo.
E di nuovo l'insegnamento di Suzuki: "L'unico modo per sopportare il dolore è lasciare che sia doloroso".
"Accidenti, va bene, ma non così, non questo dolore, non così forte, non quando è disperazione!".
Mentre invece una voce morbida diceva: "Va bene anche così, va bene anche quando ci sembra insopportabile".
Di colpo la disperazione cessava di essermi ostile, mi tendeva la mano, o ero io che le tendevo la mano tra le lacrime. Non importava, amicizia era fatta.
La possibilità di amicizia con la disperazione, come un seme, si era piantata nel mio cuore
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