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Inserito il - 17/11/2008 : 13:02:42
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Le fondamenta del dharma: le 4 Nobili Verità 1
La mente custodita
di Corrado Pensa
(prima parte)
LE FONDAMENTA DEL DHARMA: LE QUATTRO NOBILI VERITÀ
Le quattro nobili verità costituiscono il fulcro dell.insegnamento del Buddha. Le quattro nobili verità (nobili perché conducono alla liberazione) sono le seguenti: la verità dell.esistenza di dukkha ovvero della sofferenza, la verità che dukkha è prodotta da cause (raccolte sotto i tre capitoli dell.attaccamento, dell.avversione-paura e della confusione-ignoranza), la verità che esiste la possibilità di porre fine alla sofferenza (o verità della liberazione, nirvana ) e infine la verità che esiste un cammino, un sentiero, un insieme di mezzi per lavorare a conseguire lo scopo, ossia il superamento della sofferenza.
Nelle scritture viene detto che le quattro nobili verità, che sono in un certo senso la sintesi del Dharma, sono belle all.inizio, belle a metà e belle alla fine; e altrettanto si dice del Dharma. Ma se non si è sviluppata una certa dimestichezza con il lavoro interiore e con la pratica, una simile affermazione può suonare come un. espressione poetica e nient.altro. Solo con il passare del tempo e col maturare della pratica ci potremo rendere conto, invece, della sua verità viva. Inoltre, nella tradizione del Dharma si afferma che ogni volta che . in un contesto di pratica . ascoltiamo discorsi, detti e riflessioni intorno alle quattro verità, in ognuna di queste occasioni si accresce la nostra capacità di comprenderle e di realizzarle. E anche questa è una verità che piano piano arriviamo a toccare con mano.
Infatti in virtù della pratica si diventa come più porosi, più ricettivi a questo tema fondamentale, e pertanto l.ascoltarlo ripetutamente è, insieme, effetto e causa di ulteriore approfondimento. Senza dimenticare che l.ascolto fa parte a tutti gli
effetti della pratica del Dharma. Inoltre, in un contesto di pratica, cominciano a farsi strada un udire e un percepire diversi: tali, cioè, che permettono una comprensione più profonda. D.altronde ciò che è di gran valore costa. Costa tempo ed energia. Inevitabilmente quindi anche la verità delle quattro nobili verità emerge molto gradualmente: da una nozione puramente dottrinaria e mentale passiamo alla percezione di una .cosa. sempre più reale.
ESISTE LA SOFFERENZA (E VA RICONOSCIUTA). IL LAVORO CON DUKKHA E AVIJJÁ
La prima nobile verità, dunque, è che esiste dukkha, la sofferenza.
Ciò non significa che tutto è dukkha, però. Se così fosse non avrebbero ragion d'essere le altre verità nelle quali si afferma il superamento di dukkha, la possibilità di andare oltre la sofferenza. È pertanto un errore grossolano affermare che il Buddha dichiarò che tutto è sofferenza. Si tratterebbe in questo caso di un insegnamento totalmente pessimistico. Al contrario il Buddha si fa portatore di una buona notizia, una grande buona notizia: esiste la sofferenza, ma essa può essere riconosciuta, capita e superata.
Allora, parte della prima nobile verità è anche che la sofferenza va riconosciuta e compresa. E il riconoscimento di dukkha è già un percorso, un progetto, un lavoro in sé, per due motivi: anzitutto perché il significato di dukkha è molto più ampio del significato della parola .sofferenza., ed esso va scoperto, toccato, realizzato; in secondo luogo perché c.è dentro di noi una forza, avijjá (l'ignoranza, la confusione), che tende a nasconderci la profondità di dukkha e a conservare le cose così come stanno. L.avijjá, è una forza in certo senso molto intelligente: essa fa sì che noi non le si chieda: .Ma perchè non vuoi che vada a vedere quanta sofferenza mi affligge?.. La risposta sarebbe: .Perché voglio che rimani così, così va bene, non c'è da cercare altro, accontentati!..
Si noti che nelle scritture avijjá, l.ignoranza, è personifi- cata da Mára, l'ostruttore, l'ostacolatore per eccellenza. Ed è molto interessante e significativa la modalità con cui il Buddha tratta con Mára: quando Mára si aggira tra i cespugli, il Buddha si limita a dire: .Mára, ti ho visto.. E Mára fugge. .Ti ho visto., ossia l'importanza di vedere l.ostacolo, di vedere la nostra resistenza a incontrare meglio e più profondamente la nostra sofferenza e i modi con cui l.alimentiamo. .Mára, ti ho visto., altro non è se non la consapevolezza della nostra reattività. È la consapevolezza calma del vedere qualcosa che non vuole essere visto e che il solo movimento di vedere fa dileguare (Mára che scappa).
Data, come si diceva, l'ampiezza del significato della parola, nel parlare di sofferenza conviene allora mantenere il termine dukkha, perché più adatto a coprire l'intero spettro, la grande gamma della sofferenza, che va dalla più grande disperazione al più piccolo disappunto, alla minima frustrazione.
Qualsiasi momento di disagio è considerato dukkha, e anche quando tocchiamo con mano un pò. di agio, questo può rivelarsi ancora una volta, in ultima analisi, dukkha, perché sappiamo che non durerà, che è una condizione effimera, fragile.
Ma il sapere che fondamentalmente l'agio, la felicità, non dureranno significa, allo stesso tempo, che siamo capaci di concepire un agio che non finisce. Altrimenti non potremmo avere un moto di delusione per un agio che, al contrario, finisce. Ora in questa possibilità di concepire un agio incondizionato, senza fine, risiede, evidentemente, un fondamento cruciale della fiducia nella liberazione. Da notare che, al di là del cammino spirituale, intuire la possibilità dell.infinito, appamana, può derivarci anche da altre fonti, per esempio dalla natura o dall.arte. Non sembra dunque trattarsi di una isolata .trovata. spirituale.
E sebbene ci sia chi lo crede, non si tratta certo di una reazione comune, altrimenti tali insegnamenti non si sarebbero tramandati per secoli sull.onda di un interesse sempre nuovo, ora anche da parte di chi . come gli scienziati . ha sempre, al contrario, manifestato come minimo scetticismo nei confronti di verità che non fossero quelle della scienza.
A parte questo spiraglio di luce (la capacità di concepire un agio incondizionato), quando ci avviciniamo per la prima volta al Dharma è comprensibile che non ci rallegri il sentire parlare tanto di dukkha, ossia di una sofferenza ben più ampia di quanto siamo abituati a pensare. Sofferenza con la quale, inoltre, veniamo sollecitati ad entrare in contatto. Vedere la sofferenza ed entrare in contatto con essa, se siamo agli inizi, non può davvero suonarci allettante. Ma se proseguiamo nel cammino, inevitabilmente si comincerà ad apprezzare l.onestà e la verità del vedere quello che non si era in grado di vedere prima.
Bisogna oltretutto tenere a mente che all.inizio l'accorgersi di avere più paura di quella che si pensava di avere o di provare più rabbia di quella che si pensava di provare non fa piacere; una possibile reazione a questa constatazione è quella di macerarsi nel dispiacere, aggiungendo così sofferenza a sofferenza. Ma se non ci lasciamo intimorire e rimaniamo sul sentiero, questa è una fase che . una volta avviata . lascia il posto alla soddisfazione e alla contentezza di conoscere come stanno veramente le cose, perché la verità rende liberi; pertanto dopo il primo disappunto e un certo sconcerto, si direbbe che l.oggetto del nostro lavoro diventa più chiaro, e la tendenza a illuderci si attenua.
Riconoscere la verità di dukkha minutamente con gli strumenti a disposizione, a cominciare dalla consapevolezza, ossia dall. osservazione affettuosa e non giudicante, è un lavoro fine e graduale: se così non fosse non potremmo arrivare alle radici. Dunque non si tratta né di rimanere superficialmente sul generico, né tanto meno di sfociare nell.ossessività e nella pignoleria. Piuttosto, occorre imparare a dimorare il più possibile nella chiarezza e nella precisione. Questo è il lavoro. E per tornare al piccolo disappunto, alla piccola frustrazione di cui si diceva, la cosa più importante è sviluppare una certa abilità a vederli e a vedere,insieme con essi, il nostro giudizio autosvalutante.
Infatti è frequente che noi si cada nella svalutazione di noi stessi poiché . identificati con il nostro ruolo di praticanti . abbiamo concluso, in modo più o meno inappellabile, che non dovremmo più avere quel disappunto, quella frustrazione! E l.ulteriore contributo alla sofferenza che noi aggiungiamo attraverso questo giudizio svalutante va nella direzione opposta a quella di un.osservazione affettuosa. Poiché il giudizio, ossia la condanna compulsiva, è ancora più pesante del disappunto e della frustrazione: se un disappunto fosse solo un disappunto avremmo la possibilità di un atteggiamento distintamente più leggero, non ci sarebbe quel carico doloroso del giudizio che appesantisce il nostro camminare e procedere nella vita generando, con ogni probabilità, nuovi disappunti e, con essi, altri giudizi.
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