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 BUDDHA, LA LUCE DELL'ASIA - 3a

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
admin Inserito il - 02/10/2023 : 09:33:55
BUDDHA, LA LUCE DELL'ASIA - 3a

SIR EDWIN ARNOLD
EDIZIONI IL PUNTO D'INCONTRO

...

Libro Quinto

Attorno a Rajagriha si alzavano cinque belle colline a guardia della silvana città del Re Bimbasara; Baibhara, verde di citronella e palme; Bipulla, ai cui piedi il sottile fiume Sarsuti scivola con tiepide increspature; l'ombrosa Tapovan, nei cui stagni fumanti si specchiano rocce nere; a sud-est il picco dell'Avvoltoio Sailagiri e ad est Ratnagiri, la collina delle gemme.
Un sentiero tortuoso, pavimentato di lastre consumate dal passaggio, conduce attraverso campi di cartamo e macchie di bambù, sotto ombrosi manghi e giuggioli, oltrepassando venature di roccia bianco-latte e rupi di diaspro, profondi precipizi e giungle fiorite dove, sul fianco di quella montagna, ad Occidente, arriva ad una caverna sopra la quale sono sospesi fichi selvatici.
Ed ecco! Tu che qui giungi, siano nudi i tuoi piedi ed abbassa il capo! Poiché in tutta questa spaziosa terra non vi è luogo più caro e più santo. Qui il signore Buddha sedette nelle torride estati, sotto le sferzanti piogge, durante gelide albe e tramonti; indossando per amore di tutti gli uomini la veste gialla, mangiando come un mendicante gli scarsi pasti ottenuti casualmente dal caritatevole; di notte rannicchiato sull'erba, senza casa, solo; mentre gli insonni sciacalli guaivano aggirandosi attorno alla sua caverna o dal folto irrompeva il brontolio della tigre affamata.
Di giorno e di notte qui dimorava colui che è onorato dal mondo, soggiogando quel bel corpo, nato per la beatitudine, con digiuni, frequenti veglie e intensa ricerca di silente meditazione, così prolungata che spesso, mentre meditava, immobile sul suo seggio come la ferma roccia, lo scoiattolo balzava sul suo ginocchio, la timida quaglia conduceva la sua prole tra i suoi piedi e le colombe blu beccavano i granelli di riso dalla tazza accanto alla sua mano.
Così egli meditava dal mezzogiorno, quando la terra scintillava dal calore e le mura e i templi danzavano nell'aria piena di vapore, fino al tramonto, non notando il calare del globo fiammeggiante, né lo scivolare della sera che purpurea e rapida si distendeva sui campi addolciti; né si accorgeva della silente venuta delle stelle, né della vibrazione della pelle dei tamburi nell'indaffarata città, né del grido del gufo e delle contese notturne; completamente assorbito in sé, in acuto districare i fili del pensiero e procedendo stabile nei labirinti della vita.
Così egli sedeva finché la mezzanotte rendeva silente il mondo e solo le bestie dell'oscurità uscivano dai cespugli e ululavano con guaiti di paura e odio, mentre la lussuria, l'avarizia e l'ira scivolavano nelle nere giungle dell'ignoranza dell'uomo.
Allora egli dormiva per quello spazio di tempo in cui la rapida luna percorre la decima parte del suo mare di nuvole.
Ma ancora si alzava prima dell'alba e sedeva in profonda riflessione su qualche ombrosa piattaforma della sua collina, osservando la terra dormiente con occhi ardenti e pensieri che abbracciavano tutti i suoi esseri viventi, mentre sopra gli ondeggianti campi si muoveva quel mormorio che è il bacio del mattino che risveglia le terre.
Ad est quel miracolo del Giorno si raccoglieva e cresceva: da principio un chiarore così fioco che la notte sembra ancora inconsapevole del sussurro dell'alba, ma presto, prima che il gallo della giungla canti due volte, appare un bianco orlo che si allarga, divenendo sempre più brillante, alzandosi verso la stella del mattino e svanendo in onde d'argento, riscaldandosi in oro pallido, afferrando le nuvole più alte e fiammeggiando sui loro bordi, per brillare in uno splendore dorato, arrossendo l'orizzonte di zafferano, scarlatto, cremisi, ametista; mentre il cielo brucia per poi rivelare lo splendido blu, ecco, vestito di vesti di luce, giunge il Re della Vita e della Gloria!
Allora Buddha, alla maniera degli antichi saggi, i Rishi, glorificava il disco nascente, scendendo poi, dopo le abluzioni, per il tortuoso sentiero nella città; e come gli antichi Rishi passava di strada in strada, con la tazza da mendicante in mano, raccogliendo l'esiguo compenso per le sue necessità.
Presto veniva riempita, poiché tutti gli abitanti della città gridavano: "Prendi dalle nostre provviste, grande signore!" e "Prendi dalle nostre!" vedendo il
suo volto divino e gli occhi immersi in contemplazione; e le madri, quando lo vedevano passare, esortavano i loro bambini a baciargli i piedi e sollevavano il lembo della sua veste per toccare con essa le loro fronti o correvano a riempire la sua giara e gli portavano latte e dolci.
E spesso, mentre egli camminava, gentile e lento, splendente di celestiale pietà, perso nella preoccupazione per coloro che non conosceva se non come suoi simili, i bruni occhi sorpresi di qualche fanciulla indiana dimoravano in improvviso amore e profonda adorazione su quella maestosa forma, come se vedessero i più teneri e puri pensieri dei loro sogni avverarsi, una grazia più nobile di quella mortale accendeva i loro petti.
Ma egli passava oltre, con la tazza e la veste gialla, accettando tutti quei doni venuti dal cuore con dolci parole e ritornando alle solitudini per sedere sulla sua collina con uomini santi, per udire e chiedere della saggezza e delle sue strade.
A mezza via nei calmi boschi di Ratnagiri, al di là della città, ma al di sotto delle caverne, dimoravano coloro che consideravano il corpo nemico dell'anima e la carne una bestia che gli uomini devono incatenare e domare con amari dolori, finché il senso del dolore stesso viene ucciso e torturavano i nervi fino a che non sentivano più la tortura: yogi, brahmachari, bhikshu, tutti scarni e funerei, dimoranti in solitudine.
Qualcuno era rimasto giorno e notte con le braccia alzate fino a che, private del sangue e disseccate dalla malattia, le giunture lentamente si disfacevano e gli arti si irrigidivano sporgendo da spalle senza carne, come rami biforcuti da tronchi della foresta.
Altri avevano stretto le loro mani così a lungo e con così determinata forza che le unghie, simili ad artigli, erano cresciute attraverso le palme piagate.
Alcuni camminavano su sandali da cui spuntavano aculei; altri con pietre affilate si tagliavano petto, fronte e coscie, cicatrizzandole con il fuoco, infilando nella loro carne spine, cospargendosi di fango e ceneri, strisciando sporchi, avvolgendo attorno al loro grembo stracci di uomini morti.
Ce n'erano alcuni che abitavano in luoghi in cui fumavano le pire funerarie, con cadaveri per compagnia e circondati da avvoltoi che si gettavano sui resti funebri; altri che ripetevano cinquecento volte al giorno i nomi di Shiva, con dei serpenti avvolti attorno al collo bruciato dal sole, coi fianchi scavati ed un piede ripiegato contro la coscia.
Così formavano una dolorosa compagnia; la cima del capo piagata dal bruciante calore, gli occhi accecati, tendini e muscoli avvizziti, visi stravolti ed esangui come quelli di uomini uccisi da cinque giorni.
Qui, uno era accucciato nella polvere e, giorno dopo giorno, contava mille grani di miglio, li mangiava con affamata pazienza, seme dopo seme e così digiunava.
Là, un altro mischiava ai suoi legumi foglie amare per evitare che il palato fosse troppo compiaciuto; e più avanti, un miserabile santo che si era mutilato, privo d'occhi, senza lingua, senza sesso, zoppo, sordo; il corpo veniva così spogliato dalla mente, per la gloria di molta sofferenza e per la beatitudine che vinceranno, dicono i santi libri, coloro la cui sofferenza
porta vergogna agli dei che ce la inviano e rende dei gli uomini stessi, capaci di soffrire più di quanto l'inferno possa nuocere.
Guardandoli tristemente, Siddhartha parlò ad uno di loro, capo tra coloro che cercano la sofferenza: "Troppa sofferenza, signore! Per molte lune ho dimorato sulla collina, cercando la Verità e ho visto qui i miei fratelli e te così pietosamente tormentati da voi stessi; perché aggiungete sofferenza alla vita, che già ne contiene così tanta?"
Così rispose il saggio: "È scritto che se un uomo mortificherà la sua carne fino a che la vita che vive diventa dolore e la morte un riposo voluttuoso, tali tormenti purificheranno i suoi peccati e l'anima, così purgata, sfreccerà dalla fornace del suo dolore, alata, verso gloriose sfere e uno splendore che sorpassa ogni pensiero."
"Guarda le nuvole che fluttuano nel cielo," rispose il Principe, "adornate come la veste d'oro attorno al trono del tuo Indra, si alzano dal mare in tempesta; ma devono ancora cadere in gocce di pianto, correndo lentamente attraverso scoscesi e dolorosi corsi d'acqua, attraverso spaccature, fenditure e flutti fangosi, fino al Gange e al mare, da dove sono state originate.
"Sai tu, fratello mio, se non sarà così, dopo i loro molti dolori, per i santi e la loro beatitudine? Poiché ciò che sorge cade e quello che si acquisisce è speso; e se voi comperate il cielo con il vostro sangue, nel duro mercato dell'inferno, quando l'affare è finito, la pena ricomincia!"
"Può essere che ricominci?", gemette l'eremita. "Ahimè non conosciamo questo, né, con certezza, qualunque altra cosa; tuttavia, dopo la notte viene il giorno e dopo il tumulto la pace e noi odiamo questa maledetta carne che si aggrappa all'anima e in alto volerebbe; così, per amore dell'anima, paghiamo la posta di brevi agonie, nella partita con gli dei, per ottenere le gioie più grandi."
"Tuttavia, anche se esse durassero una miriade di anni," disse Siddhartha, "alla fine esse svanirebbero; o, altrimenti, c'è vita allora al di sotto, al di sopra, al di là, così dissimile da questa, che non cambi? Parla! Durano forse per sempre i tuoi dei, fratello?"
"No," dissero gli yogi, "solo il grande Brahman: gli dei semplicemente vivono."
Allora parlò il Signore Buddha: "Vorrete voi, essendo saggi, poiché sembrate santi e dal cuore forte, lanciare questo amaro dado dei vostri gemiti e lamenti per guadagni che possono essere sogni e che devono aver fine?
"Vorrete voi, per amore dell'anima, odiare così la vostra carne, così flagellarla e mutilarla, al punto da non essere più idonea a sostenere lo spirito, cercando la casa ma cadendo sul sentiero prima che scenda la notte, come un volonteroso destriero troppo incitato?
"Vorrete voi, tristi fratelli, smantellare e smembrare questa bella casa dove siamo giunti a dimorare a causa di dolorosi passati; le cui finestre ci danno luce, la piccola luce per mezzo della quale guardiamo al di là per conoscere se l'alba verrà, e dove si snoda il sentiero migliore?"
Allora essi gridarono all'unisono: "Abbiamo scelto questo come cammino e lo percorreremo, Rajaputra (figlio di Re), fino alla fine, anche se tutte le sue pietre
fossero di fuoco, confidando nella morte. Se conosci una via più eccellente parla, altrimenti, che la pace sia con te!"
Egli continuò, molto addolorato, osservando che gli uomini temono così tanto di morire da essere paralizzati dalla paura, bramano così tanto di vivere da non osare amare la loro vita, piagandola con crudeli penitenze, forse per compiacere gli dei che invidiano all'uomo il piacere; forse per evitare l'inferno con inferni auto-inflitti; forse in santa follia, sperando che l'anima possa irrompere meglio attraverso la loro carne martoriata.
"O graziosi fiori del campo!" disse Siddhartha, "che rivolgete i vostri teneri volti al sole, felici della luce e grati diffondete dolci fragranze indossando vesti piene di reverenza, d'argento, oro e porpora, nessuno di voi manca del perfetto vivere, nessuno di voi si spoglia della sua felice bellezza.
"O voi palme che vi elevate bramose di forare il cielo e bere il vento che soffia dall'Himalaya e dai freschi mari blu, quale segreto conoscete che crescete contente, dal tempo del tenero germoglio al momento del frutto, sussurrando solari canzoni dalle vostre frondose corone?
"Anche voi, che dimorate così lieti negli alberi, pappagalli sfreccianti, colibrì, bulbuls, colombe, nessuno di voi odia la sua vita, nessuno di voi considera di sforzarsi per migliorarla privandosi dei bisogni!
"Ma l'uomo che vi uccide, essendo il signore, si considera saggio e la saggezza, nutrita di sangue, sfocia così nel tormento di se stesso!"
Mentre il Maestro parlava, si alzava dal monte la
polvere di un calpestio: capre e pecore nere scendevano lente per il tortuoso sentiero; molte indugiavano a brucare i ciuffi d'erba, allontanandosi dal sentiero dov'era l'acqua luccicante e pendevano i fichi selvatici. Ma sempre, mentre esse sviavano, il pastore gridava o adoprava la sua sferza e continuava a far muovere, verso la pianura, la sciocca moltitudine.
Nel gregge c'era una pecora con due agnellini.
Una ferita faceva zoppicare uno degli agnelli che arrancava, indietro, sanguinante, mentre davanti il suo gemello saltellava di qua e di là e la madre perplessa correva avanti e indietro timorosa di perdere questo o quello; quando Siddhartha vide ciò, pieno di tenerezza, prese l'agnello zoppicante sul suo collo dicendo: "Povera madre, abbi pace! Dovunque andrai, io porterò il tuo piccolo. È altrettanto buono lenire l'angoscia di un animale che sedere e riflettere sui dolori del mondo in caverne solitarie, con preti che pregano."
"Ma," disse ai pastori, "dove, amici, conducete il gregge, sotto il sole di mezzogiorno, poiché è alla sera che gli uomini riconducono all'ovile le loro pecore?"
E i pastori risposero: "Siamo stati inviati a procurare un sacrificio di cento capre e cento pecore che il nostro signore, il Re, ucciderà questa notte in adorazione dei suoi dei."
Allora disse il Maestro: "Anch'io verrò."
Così egli camminò pazientemente, portando l'agnello, a fianco dei pastori, nella polvere e sotto il sole, mentre la madre meditabonda belava piano ai suoi piedi.
Quando arrivarono alla riva del fiume, una donna dagli occhi di colomba, giovane, con il volto pieno
di lacrime e le mani sollevate, salutò inchinandosi profondamente: "Signore! Sei tu," ella disse, "colui che ieri ebbe pietà di me, qui, nel boschetto dei fichi dove vivo sola e allevo il mio bambino.
"Aggirandosi tra i boccioli, egli trovò un serpente che si avvolse attorno al suo polso, e rise e giocò con la rapida lingua biforcuta, aprendo la bocca di quel freddo compagno di giochi.
"Ma ahimè! Ad un tratto diventò così pallido e immobile che non potevo immaginare perché mai avesse cessato di giocare e lasciasse che il mio seno scivolasse dalle sue labbra. Ed uno disse: 'È avvelenato.' Ed un altro: 'Morirà'. Ma io che non potevo perdere il mio prezioso bambino, li pregai di chiamare un medico che potesse richiamare la luce ai suoi occhi; era così piccolo il segno di quel bacio del serpente e penso che egli non poteva odiarlo grazioso com'era, né ferirlo mentre giocava.
"E qualcuno disse: 'C'è un sant'uomo sulla collina, e guarda! Sta arrivando proprio ora con la sua veste gialla. Chiedi al Rishi se c'è una cura per ciò che ha colpito tuo figlio.'
- "Allora venni tremando da te, la cui fronte è come quella di un dio e piansi e aprii la veste che nascondeva il volto del mio bambino, pregandoti di dirmi quale rimedio sarebbe stato benefico. E tu, nobile signore, non mi respingesti, ma guardasti con occhi gentili e toccasti con mano paziente; poi, ricoprendogli il volto, mi dicesti: 'Sì, piccola sorella, c'è ciò che può guarire, innanzitutto te e poi lui, se riesci a procurartela; poiché coloro che cercano i medici portano loro ciò che viene ordinato.
"Perciò, ti prego, trova un tola (dodici grammi) di semi di senape nera; soltanto, fai attenzione che non provenga da nessuna mano o casa in cui padre, madre, figlio o schiavo siano morti; sarà bene se troverai tali semi.' Così dicesti, mio signore!"
Il Maestro sorrise con grande tenerezza: "Sì, lo dissi, cara Kisagotami! Ma hai trovato i semi?"
"Andai, signore, stringendo al petto il mio bambino che diventava sempre più freddo, chiedendo ad ogni capanna, qui nella giungla e verso la città: 'Vi prego, datemi della senape nera, per vostra grazia, una tola.' E chiunque l'avesse me la diede, poiché tutti i poveri sono compassionevoli con il povero; ma quando chiesi: 'Nella casa del mio amico, qui, è mai per caso morto qualcuno, marito o moglie, figlio o schiavo?' essi dissero: 'O sorella! Che cosa stai chiedendo? I morti sono moltissimi e i vivi pochi!'
"Così con tristi ringraziamenti restituii la senape e pregai degli altri; ma anche gli altri dissero, 'Ecco i semi, ma abbiamo perso il nostro schiavo'. 'Ecco i semi, ma il nostro buon uomo è morto'. 'Ecco dei semi, ma colui che li seminò è morto tra il tempo della pioggia e quello del raccolto!'
"Ah, signore! Non ho potuto trovare una sola casa dove vi fossero dei semi di senape e nessuno fosse morto! Perciò lasciai il mio bambino che più non si nutriva né sorrideva, sotto le vigne selvatiche vicino al fiume, per cercare il tuo volto e baciare i tuoi piedi e pregarti di dirmi dove posso trovare questo seme senza che vi sia morte, se ora, il mio bambino non è deceduto come temo e come mi hanno detto."
"Sorella mia! Tu hai trovato," disse il Maestro,
"cercando ciò che nessuno trova, quell'amaro balsamo che io avevo da darti. Colui che tu tanto amasti già ieri dormiva sul tuo seno il sonno della morte: oggi sai che l'intero vasto mondo piange assieme a te il tuo dolore: l'angoscia diventa minore, per uno, quando tutti i cuori la condividono.
"Ecco! Verserei il mio sangue se potessi arrestare le tue lacrime e vincere il segreto di quella maledizione che trasforma in angoscia il nostro dolce amore e che tra i fiori e i pascoli, come questi inconsapevoli animali, conduce al sacrificio gli uomini loro padroni. Io cerco quel segreto: tu seppellisci il tuo bambino!"
Così essi entrarono nella città fianco a fianco, i pastori e il Principe, quando il sole lentamente faceva risplendere d'oro il lontano fiume Sona e gettava lunghe ombre lungo la strada e attraverso il cancello dove gli uomini del Re stavano di guardia.
Ma quando videro Siddhartha, che portava l'agnello, le guardie arretrarono, la gente del mercato tirò da parte le sue mercanzie, nel bazar i compratori e i venditori arrestarono la guerra delle lingue per fissare quel dolce volto; il fabbro, con il martello alzato nella mano, dimenticò di colpire; il tessitore lasciò la sua tela, lo scrivano la sua pergamena, il cambiamonete perse il conto dei suoi pezzi.
Del bianco riso incustodito il bianco toro di Shiva si nutriva liberamente; il latte straripava dal lota (dal recipiente), mentre i venditori osservavano il passaggio di Buddha che si muoveva così umilmente, eppure con tanta bellezza e maestà.
Ma la maggior parte delle donne raccolte sulle soglie chiese: "Chi è costui che porta il sacrificio, che
mentre passa emana così tanta grazia e pace? Qual è la sua casta? Da dove ha preso occhi così dolci? Può egli essere Sakra o il Devaraj? E altre dissero: "È il sant'uomo che dimora con i rishi sulla collina."
Ma il signore camminava con l'attenzione rivolta all'interno, pensando: "Ahimè! Per tutte le mie pecore che non hanno pastore; che vagano nella notte senza nessuno che le guidi, belando ciecamente verso il coltello della morte; così come queste ignare bestie di simile destino."
Poi qualcuno disse: "Là giunge un santo eremita portando il gregge che tu hai ordinato coronasse il sacrificio."
Il Re si alzò nella sua sala delle offerte. Da entrambe le parti, i bramini vestiti di bianco erano schierati a mormorare i loro mantra, nutrendo il fuoco che ardeva nell'altare centrale.
Da legna profumata scaturivano brillanti lingue di fiamma, sibilando e scoppiettando mentre lambivano i doni di ghi e spezie e il succo di soma, la gioia di Indra, il Re degli dei.
Attorno all'altare, fumava e correva un lento, spesso e scarlatto, rivolo, risucchiato dalla sabbia, ma costantemente in corsa, il sangue delle vittime belanti.
Una di queste, una capra maculata, dalle lunghe corna, la testa legata all'indietro con erba munja, giaceva mentre un sacerdote premeva sulla sua gola un coltello e mormorava: "Questo, venerabili dei, di molti sacrifici è il coronamento, da parte di Bimbasara: rallegratevi nel vedere il sangue versato e compiacetevi del profumo della ricca carne arrostita nelle fragranti fiamme; che i peccati del Re siano deposti su questa
capra e che il fuoco li consumi bruciandola, poiché ora colpisco."
Ma Buddha dolcemente disse: "Che egli non colpisca, grande Re! E quindi sciolse i legami della vittima senza che nessuno lo arrestasse, tanto era grande la sua presenza. Poi, implorando di dargli ascolto, parlò della vita che tutti possono prendere, ma nessuno può dare, la vita che tutte le creature amano e si sforzano di mantenere, meravigliosa, cara, piacevole a ciascuno, anche al più infimo; sì, un regalo per tutti quando c'è la pietà, poiché la pietà rende il mondo dolce per il debole e nobile per il forte."
Alle mute labbra del suo gregge egli prestò tristi, imploranti parole, mostrando come l'uomo che prega per ricevere la misericordia degli dei è egli stesso privo di misericordia, essendo simile a un dio per le sue vittime; sebbene tutta la vita sia legata e affine e ciò che uccidiamo ci abbia dato un umile tributo di latte e lana, ponendo la fiducia nelle mani assassine.
Parlò anche di ciò che i santi libri sicuramente insegnano, come alla morte qualcuno sprofonda per rinascere come uccello e bestia e come questi evolvano per diventare uomini nel vagabondaggio della scintilla divina che diviene fiamma purificata.
Così il sacrificio è un nuovo peccato se il destinato passaggio di un'anima viene arrestato. Né, disse ancora, uno dovrebbe lavare il suo spirito con il sangue; né rallegrare gli dei se sono buoni, con sangue; né corromperli se sono malvagi; anzi, non si dovrebbe porre sulla fronte dell'innocente bestia legata il peso di un solo capello, per quella risposta che tutti dovranno dare per le cose commesse anche casualmente o erroneamente.
Poiché soli, ognuno per se stesso, si dovrà dar conto per mezzo della fissa aritmetica dell'universo che misura il bene con il bene e il male per il male, quantità per quantità, in azioni, parole e pensieri; vigile, consapevole, implacabile, inamovibile; rendendo di ogni futuro il frutto di tutto il passato.
Così parlò, alitando parole così pietose, con tale alta nobiltà di aspetto e diritto che i preti nascosero sotto le loro vesti le mani macchiate di sangue e il Re si avvicinò, stando in piedi con palme giunte, a riverire Buddha; mentre Buddha continuava, insegnando come sarebbe bella questa terra se tutti gli esseri viventi fossero legati dall'amicizia e dall'uso comune di cibi non macchiati dal sangue e puri; il grano dorato, i brillanti frutti, le dolci erbe che crescono per tutti, le acque correnti che insieme formano cibo e beveraggio sufficiente.
Quando udirono tutto questo, quando la potenza della gentilezza così li conquistò, i sacerdoti stessi distrussero le fiamme dei loro altari e gettarono via il coltello sacrificale; e per tutta la terra, il giorno successivo, circolò un decreto proclamato dagli araldi e in questo modo inciso sulle rocce e sulle colonne: "Questa è la volontà del Re: c'è stata carneficina per i sacrifici e uccisione per la carne, ma d'ora in poi nessuno verserà il sangue della vita, né gusterà carne, vedendo che la conoscenza cresce e la vita è una e la misericordia giunge al misericordioso."
Così diceva l'editto e da allora in poi la pace si diffuse tra tutte le specie viventi, l'uomo e le bestie che lo servono e gli uccelli, su tutte le rive del Gange
dove il nostro Signore insegnò con la sua santa misericordia e dolci parole.
Poiché era sempre così pietoso, il cuore del Maestro, per tutti coloro che respirano questo respiro di vita fuggevole, uniti in una comunanza di gioie e dolori.
Nei santi libri è scritto come in un'epoca antica, quando Buddha rivestì la forma di un bramino dimorando sulla roccia chiamata Munda, vicino al villaggio di Dalidd, la siccità inaridì tutta la terra: il giovane riso morì prima che potesse nascondere la quaglia; nelle radure della foresta un ardente sole prosciugava le pozze d'acqua; erbe e piante medicinali si ammalavano e tutte le creature del bosco scappavano cercando sostentamento.
A quel tempo, tra i cocenti muri di un nullah, allungata su nude pietre, il nostro Signore vide, mentre passava, una tigre affamata. Nelle sue orbite la fame scintillava con fiamma verde; la sua lingua arida si allungava di una spanna oltre le fauci rantolanti e le mascelle scavate; i suoi fianchi striati pendevano raggrinziti dalle costole, come quando, tra le travi, sprofonda un tetto di paglia marcito dalle piogge; e ai poveri, magri, capezzoli, due cuccioli che guaivano affamati spingevano e succhiavano quel petto senza latte ridotto a niente, mentre lei, la loro emaciata madre, leccava colma di materno affetto i rumorosi gemelli, cedendo loro il suo fianco e soffocando un gemito, poiché l'amore era più forte del bisogno.
Dopo aver soffocato il primo selvaggio grido, ella appoggiò il suo affamato muso sulla sabbia e ruggì con un selvaggio e tonante appello di dolore.
Vedendo quell'amara difficoltà e non ascoltando
null'altro se non l'immensa compassione di un Buddha, il nostro Signore pensò: "Non c'è che un solo modo per aiutare questa assassina dei boschi. Al tramonto sarà morta non avendo più carne; non c'è alcun cuore vivente che abbia pietà di lei, avida di prede sanguinanti, magra per mancanza di sangue. E allora, se la nutrirò io, chi ci rimetterà all'infuori di me e come può l'amore perdere, donando agli altri tutto ciò che ha?"
Così dicendo, Buddha, silenziosamente mise da parte i sandali e il bastone, il suo sacro filo, il turbante e la veste e avanzò da dietro il cespuglio sulla sabbia dicendo: "Ecco, madre, qui c'è carne per te!"
E la bestia morente diede un rauco grido e allontanandosi dai suoi cuccioli gettò a terra quella volontaria vittima straziandola con tutti i suoi affilati artigli, strappandone la carne e affondando le sue gialle zanne nel sangue, mentre il bruciante respiro del grande felino si mischiava con l'ultimo sussurro di tale indomito amore.
Grande era il cuore del maestro già molto tempo prima, non soltanto allora, quando col suo grazioso gesto fece cessare la crudele adorazione degli dei.
E il Re Bimbasara pregò molto Buddha, venendo a sapere della sua nascita reale e della sua santa ricerca, di fermarsi in quella città, dicendo:
"Il tuo stato principesco potrebbe non sostenere tali digiuni; le tue mani furono fatte per reggere scettri, non per elemosinare.
Rimani con me, che non ho figli, a governare e insegna al mio regno la saggezza fino a che morirò, alloggiato nel mio palazzo con una bella moglie."
Ma così parlò Siddhartha, dalla stabile mente
"Queste cose ebbi molto tempo fa, nobile Re, e le lasciai, per cercare la Verità che ancora cerco e troverò; non per essere fermato, anche se il palazzo di Sakra mi aprisse le sue porte e la perla tra le devi, le dee, spasimasse per me.
Vado a costruire il Regno della Legge, soggiornando a Gaya e all'ombra della foresta dove, penso, la luce verrà a me; poiché non è qui, tra gli asceti, che arriva quella luce, né da coloro che conoscono le scritture, né dai digiuni sopportati fino a che il corpo crolla, tormentato dall'anima.
Tuttavia c'è una luce da raggiungere e una verità da conseguire; e sicuramente, o vero amico, se io la conseguirò ritornerò e compenserò il tuo amore."
Allora il Re Bimbasara girò tre volte attorno al Principe, chinandosi riverentemente a toccare i piedi del Maestro e lo lasciò partire.
Così si allontanò Buddha, dirigendosi verso Uravilva non ancora appagato, con il volto affilato e debole da sei anni di ricerca.
Ma sulla collina e nel bosco, Alara, Udra e i cinque asceti lo fermarono, dicendo che tutto era chiaramente descritto nelle sante scritture e che nessuno poteva guadagnare nulla di più di ciò che era rivelato nelle Sruti e nelle Smriti, nemmeno i più grandi tra i santi!
Infatti, come poteva un uomo mortale essere più saggio delle Jnana-Kand, le scritture che rivelano come Brahman sia al di là della forma e al di là dell'azione, al di là della passione, calmo, non qualificato, immutabile, pura vita, puro pensiero, pura gioia?
O come poteva, l'uomo, essere migliore del Karma-Kand, che rivela come egli possa liberarsi della passione e dell'azione, spezzare i vincoli dell'ego e così, oltre la sfera mortale, essere Dio e fondersi nella vasta divinità, volando dal falso al vero, dalle guerre dei sensi alla pace eterna dove vive il silenzio?
Ma il Principe li ascoltò non ancora appagato.



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