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 BUDDHA, LA LUCE DELL'ASIA - 3b

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
admin Inserito il - 02/10/2023 : 09:34:38
BUDDHA, LA LUCE DELL'ASIA - 3b

SIR EDWIN ARNOLD
EDIZIONI IL PUNTO D'INCONTRO

...


Libro Sesto

Tu che vuoi vedere dove alla fine albeggiò la luce, segui la valle del Gange in direzione nord-ovest, dai "Mille Giardini", fino a che i tuoi passi ti porteranno sulle verdi colline dove sgorgano quei due affluenti gemelli, il Nilajan e il Mohana; seguili mentre si snodano al di sotto degli alberi mahua dalle larghe foglie, in mezzo ai cespugli di sansar e bir, finché i due splendenti fratelli gemelli si incontrano nel letto del Phalgu, fluendo in mezzo a sponde rocciose fino a Gaya e alle rosse colline Barabar.
Vicino a quel fiume si estende un deserto spinoso che nei giorni antichi era chiamato Uruwelaya, spezzato da colline di sabbia; mentre alla sua estremità, nel bosco, ondeggia un mare verde che sembra toccare il cielo e alla sua base scorre un tranquillo flusso d'acqua pieno di boccioli di loto blu e bianchi e popolato di rapidi pesci e tartarughe.
Vicino ad esso sorgeva il villaggio di Senani, con i suoi tetti di erba, annidato tra le palme, pacifico, con
gente semplice immersa in occupazioni pastorizie.
Là, nelle solitudini silvane, una volta ancora visse il signore Buddha, riflettendo sui dolori degli uomini, le vie del fato, le dottrine dei libri, le lezioni delle creature del bosco, i segreti del silenzio da cui tutto viene, i segreti dell'oscurità in cui tutto va, la vita che giace in mezzo a questi come quel ponte lanciato da nuvola a nuvola, attraverso il cielo, che come pietre ha la nebbia e come pilastri i vapori, che si fonde ancora nel vuoto pur essendo così bello, con le sue sfumature di zaffiro, granata e crisopazio.
Luna dopo luna, nostro Signore sedette nel bosco, meditando, così da dimenticare spesso l'ora del cibo, levandosi da una contemplazione prolungata oltre l'alba e il mezzogiorno, per vedere la sua tazza vuota e doversi nutrire di frutta selvatica caduta dai cespugli sovrastanti, fatta cadere da scimmie o strappata da pappagalli color porpora.
Perciò la sua grazia sbiadì; il suo corpo, sciupato dalle battaglie dell'anima, perdeva giorno dopo giorno i trentadue segni che indicano il Buddha.
Quella foglia, così secca e avvizzita, che fluttuava ai suoi piedi dall'alto del ramo dell'albero sal, assomigliava ai teneri e verdi germogli della primavera più di quanto lui assomigliasse a colui che era il fiore tra i Principi di tutta la terra.
E un giorno, il Principe esausto cadde a terra in un mortale svenimento, consumato come un cadavere che non ha più respiro o una goccia di sangue, tanto era spento, immobile.
Ma per quella via passò un giovane pastore che vide Siddhartha giacere con le palpebre serrate e i segni di un indicibile dolore sulle labbra, mentre il cocente sole di mezzogiorno bruciava il suo capo.
Allora il ragazzo strappò ramoscelli dagli arbusti di rosa canina e li intrecciò fittamente tra loro per farne un riparo che ombreggiasse il sacro volto. Poi versò sulle labbra del Maestro gocce di latte tiepido, spremuto dal suo otre di pelle di capra per non toccarlo, essendo di bassa casta e per non far torto a colui che aveva un aspetto così nobile e santo.
Ma i testi raccontano come questi ramoscelli così piantati rinacquero a nuova vita in una profusione di foglie e fiori e di frutti rigogliosi, strettamente intrecciati, cosicché divennero come una tenda di seta piantata per un Re andato a caccia, decorata con incastonature argentee e borchie d'oro rosso.
E il ragazzo lo adorò, scambiandolo per un Dio; ma nostro Signore, riguadagnando il respiro, si alzò e chiese il latte che era nel recipiente del pastore. "Ah, mio signore, non posso dartelo," disse il ragazzo; "vedi, io sono un Sudra e il mio contatto contamina!"
Allora colui che il mondo onorò disse: "La pietà e il bisogno rendono tutti simili. Non v'è casta nel sangue, che ha un solo colore; né casta nelle lacrime, che sono salate per tutti; né uomo nasce col segno del tilak impresso sulla fronte, né col sacro filo al collo. Colui che compie giuste azioni è il due volte nato, il bramino, e colui che compie cattive azioni è il fuori-casta.
"Dammi da bere, fratello mio, poiché se arriverò alla fine della mia ricerca, ciò ti porterà del bene."
Allora il cuore del pastore fu rallegrato e diede ciò che gli era stato chiesto.
Un altro giorno passò per quella strada un gruppo di vistose ragazze, danzatrici del locale tempio ad Indra, con i loro musici; uno che suonava un tamburo adornato di penne di pavone, un altro che suonava il flauto e uno che arpeggiava con un sitar a tre corde.
Camminavano con passo agile e leggero, scendendo di ciglio in ciglio attraverso i sentieri, diretti verso qualche allegra festa, mentre le campanelle d'argento tintinnavano dolcemente sui piccoli piedi bruni e i braccialetti che portavano al braccio e al polso rispondevano col loro suono peculiare; nel frattempo, colui che suonava il sitar ne faceva vibrare le corde di ottone e una ragazza al suo fianco cantava:

"La danza è bella quando il sitar è intonato; non accordarlo né troppo basso, né troppo alto e faremo danzare i cuori degli uomini.
La corda troppo tesa si spezza e la musica vola via; la corda troppo lenta è muta e la musica muore; accorda il sitar né troppo basso né troppo alto. "

Così cantava la ragazza al suono del flauto e delle corde, volteggiando come una leggera e colorata farfalla di radura in radura lungo il sentiero della foresta, non immaginando che le sue leggere parole echeggiassero alle orecchie di colui, quel sant'uomo, che sedeva così rapito sotto il ficus a fianco del sentiero.
Ma Buddha, mentre i dissoluti passavano, alzò la fronte e disse: "Lo sciocco qualche volta insegna al saggio; forse tendo troppo questa corda della vita con l'intento di trarne la musica che porterà la salvezza.
"Ora che cominciano a scorgere la verità, i miei occhi sono offuscati, la mia forza è svanita, proprio
ora che ne ho maggiormente bisogno; dovrei avere quell'aiuto di cui l'uomo non può far senza, poiché, altrimenti, colui la cui vita era la speranza di tutti gli uomini morirà.
Vicino a quel fiume, dimorava un proprietario terriero pio e ricco, padrone di molti greggi, un buon capo, amico di tutti i poveri; e dalla sua casa il villaggio prendeva il nome "Senani".
Egli viveva piacevolmente in pace, avendo come moglie Sujata, la più graziosa fra tutte quelle figlie della pianura dagli occhi scuri; gentile e veritiera, semplice e cortese, di nobili attitudini, con una graziosa parola per tutti, di bell'aspetto, una perla tra le donne, che trascorreva sereni anni di felicità domestica a fianco del suo signore in quella tranquilla dimora indiana, a parte il fatto che nessun figlio maschio benediva la loro unione d'amore.
Con molte preghiere ella aveva invocato Lakhsmi e molte notti di luna piena aveva girato attorno al grande Lingam, nove volte nove, con offerte di riso e ghirlande di gelsomino e olio di sandalo, pregando per un figlio maschio.
Sujata aveva anche espresso un voto che se questo fosse accaduto, avrebbe fatto un'offerta di cibo al dio del bosco, abbondante, delicata, in una tazza d'oro sotto al suo albero; un cibo quale solo le labbra degli dei possono gustare e ottenere.
E così fu: poiché le era nato un bellissimo bambino che ora aveva tre mesi e che riposava sul suo petto, mentre camminava con grati passi verso l'altare del dio del bosco; con un braccio stringeva il suo sari cremisi ad avvolgere il bambino, quella gioia tra le sue
gioie, mentre con l'altro braccio graziosamente curvato teneva fermi sul capo la ciotola e il piatto che contenevano le squisite offerte per il dio.
Ma Radha, mandata innanzi a spazzare il terreno e a legare i fili scarlatti intorno all'albero, venne di corsa gridando: "Ah, cara padrona! Guarda! C'è il dio del bosco seduto al suo posto, apparso con le mani appoggiate sulle ginocchia. Guarda come la luce risplende attorno alla sua fronte! Quanto dolce e grande sembra, con occhi celestiali! È grande e buona fortuna incontrare così gli dei."
Così, ritenendolo divino, Sujata si avvicinò tremante, baciò la terra e disse dolcemente, col volto chino: "Voglia il Santo che abita il suo bosco, elargitore di bene, misericordioso con me, la sua ancella, che ha rivelato ora la sua presenza, accettare questi nostri poveri doni di candido latte cagliato, appena fatto con latte bianco come l'avorio intagliato!"
Poi versò nella tazza d'oro il latte e sulle mani di Buddha, da una bottiglietta di cristallo, versò dell'attar, l'essenza di rose, distillata dai cuori delle stesse; ed egli mangiò, senza dire una parola, mentre la madre contenta stava da parte riverentemente.
La virtù di quel pasto era così meravigliosa che Siddhartha sentì nuova forza e vita ritornare, come se le notti di veglia e i giorni del digiuno fossero trascorsi in sogno; come se anche lo spirito, assieme alla carne, condividesse quel buon pasto e rispuntassero nuove piume sulle ali, come un uccello deliziato di fronte ad un improvviso corso d'acqua, dopo uno stancante volo su interminabili distese di sabbia, nel quale lava la polvere del deserto dal collo e dalle piume.
E ancor più Sujata lo adorò vedendo il nostro Signore diventare sempre più bello e il suo aspetto più brillante: "Sei tu invero il dio?" chiese a bassa voce. "E il mio dono ha trovato il tuo favore?"
Ma Buddha disse: "Che cosa mi hai portato?"
"Oh santo!" rispose Sujata: "Dai nostri armenti ho preso il latte di cento madri che avevano appena partorito e con quel latte ho nutrito cinquanta mucche bianche, poi con il loro ne ho nutrite venticinque e con il loro altre dodici e poi ancora con il loro latte ho nutrito le sei più nobili e migliori di tutte le nostre mandrie.
"Ho bollito il loro latte con sandalo e spezie preziose in recipienti d'argento, aggiungendo riso ben cresciuto da seme scelto, posto in terreno appena arato, così scelto che ogni granello era come una perla. Ho fatto questo con tutto il cuore, perché avevo votato, sotto il tuo albero, che se avessi avuto un figlio, avrei, per la mia gioia, fatto un'offerta. Ed ora ho mio figlio, e tutta la mia vita è beatitudine!"

Siddhartha allora aprì dolcemente il panno cremisi e ponendo sul piccolo capo quelle mani che avrebbero aiutato il mondo disse: "Sia lunga la tua beatitudine! E cada leggermente su di lui il peso della vita! Poiché tu mi hai aiutato, io che non sono un dio, ma un tuo fratello; in precedenza un Principe ed ora un pellegrino che in questi sei duri anni ha cercato notte e giorno quella luce, che da qualche parte splende per illuminare l'oscurità degli uomini, se essi la scoprissero!
"E io troverò quella luce! Sì, ora è albeggiata gloriosa e utile, quando la mia debole carne è mancata e
questo puro cibo, bella sorella, l'ha rinvigorita. Cibo attinto attraverso vite per dare la vita, mentre essa stessa passa in molte nascite verso altezze più felici, purificandosi dai peccati. Tuttavia, trovi davvero sufficientemente dolce il solo vivere? Possono la vita e l'amore bastare?"

Rispose Sujata: "O tu, degno di adorazione! Il mio cuore è piccolo e una piccola pioggia riempirà la coppa del lillà, seppur a malapena inumidisce il campo.
"È sufficiente per me sentire il sole della vita splendere nella grazia del mio signore e nel sorriso del mio bambino, per creare l'amorevole primavera della nostra casa.
"Piacevoli passano i miei giorni riempiti di occupazioni domestiche; dal sorgere del sole, quando mi sveglio e lodo gli dei, dispenso il grano, poto la pianta di tulsi e metto al lavoro le mie ancelle, fino al mezzogiorno, quando il mio signore pone il suo capo sul mio grembo, cullato da dolci canzoni e dall'oscillare del ventaglio; fino al tempo della cena nel quieto tramonto quando al suo fianco servo il cibo.
"Allora le stelle accendono le loro lampade d'argento per il sonno, dopo il tempio e le chiacchierate con gli amici.
"Come potrei non essere felice, così tanto benedetta, avendogli dato questo bambino la cui minuscola mano condurrà la sua anima al cielo, se sarà necessario? Poiché i santi libri insegnano che se un uomo pianta degli alberi affinché i viandanti trovino ombra e scava un pozzo per il conforto dei contadini e dà la nascita ad un figlio, ciò sarà benefico per lui dopo la
sua morte; e ciò che i libri dicono, io umilmente credo, non essendo più saggia di quei grandi dell'antichità che parlavano con gli dei e conoscevano gli inni e i mantra e tutte le vie della virtù e della pace.
"Inoltre, penso che il bene debba venire dal bene e il male dal male, sicuramente, a tutti, in ogni luogo e tempo, vedendo che il dolce frutto cresce dalle radici integre e le cose amare crescono da quelle velenose; sì, vedendo inoltre come il rancore porti l'odio e la gentilezza amici e la pazienza pace anche quando siamo in vita; e quando il destino vorrà la nostra morte, non dovrà essere altrettanto buono com'è ora?
"Quanto migliore dovrà essere! Poiché un granello di riso dà origine a una verde piuma gemmata con cinquanta perle e tutto lo stellato gelsomino bianco e oro si nasconde in quei piccoli, nudi, grigi, germogli primaverili.
"Ah, Signore! So che ci potrebbero essere dolori la cui sopportazione farebbe disperare la pazienza fino a farle nascondere il volto nella polvere; se questo mio bambino morisse prima di me, penso che il mio cuore si spezzerebbe, quasi spero, che il mio cuore si spezzerebbe! Cosicché lo stringerei morto e attenderei il mio signore, in qualunque sia il mondo in cui dimorano le mogli fedeli ed obbedienti, nell'attesa che giunga l'ora del compagno.
"Ma se la Morte chiamasse Senani, salirei sulla pira funeraria e metterei quella cara testa sul mio grembo, nel mio solito modo, rallegrandomi quando la torcia accendesse quella rapida fiamma, dando l'avvio al fumo soffocante. Poiché è scritto che se una moglie indiana muore così, il suo amore darà all'anima di suo
marito dieci milioni di anni Swarga, in cielo, per ogni capello che ha sul suo capo.
"Perciò io non temo. E perciò, santo signore, la mia vita è appagata, pur non dimenticando quelle altre vite dolorose e povere, malvagie e miserabili, alle quali gli dei concedano misericordia! Ma per quanto mi riguarda, qualunque cosa buona io vedo, umilmente cerco di metterla in pratica e vivo obbediente alla legge, confidando che ciò che verrà e deve venire, verrà per il meglio."
Allora parlò il Signore Buddha: "Tu insegni a coloro che insegnano, più saggia della saggezza, nella tua semplice conoscenza. Sii appagata di non conoscere, conoscendo così il tuo sentiero di rettitudine e dovere: cresci tu, fiore, con la tua gentile dolcezza all'ombra pacifica; la luce di mezzogiorno del sole della verità non è per le foglie tenere che devono allargarsi in altri soli, sollevando, in vite più tarde, una testa coronata verso il cielo.
"Tu che mi hai adorato, io adoro te! Cuore eccellente! Che conosce non sapendo, come la colomba che è volata a casa seguendo soltanto il suo amore. In te si vede perché c'è speranza per l'uomo e dove possiamo arrestare a volontà la ruota della vita. Sia con te la pace e il conforto in tutti i tuoi giorni!
"Come tu hai realizzato la tua vita, possa io raggiungere lo scopo della mia!
"Colui che tu ritenesti Dio ti chiede di augurargli questo!"
"Possa tu raggiungerlo," ella disse, china con occhi premurosi sul suo bambino che allungò le sue tenere mani verso il Buddha, conoscendo, come conoscono i bambini, più di quanto stimiamo e riverendo il nostro Signore.
Ma egli si alzò, reso forte da quel puro pasto, dirigendo i suoi passi dove cresceva un grande albero, l'albero della Bodhi (che da allora in poi non si sarebbe più dissolto, per restare per sempre oggetto di venerazione del mondo), sotto alle cui foglie era scritto che la Verità sarebbe albeggiata al Buddha: e che ora il Maestro sapeva; perciò egli si avviò con passo misurato, stabile, maestoso, verso l'Albero della Saggezza. Oh voi Mondi! Rallegratevi!

Mentre entrava nell'ampia ombra dell'albero, simile ad un porticato, con colonne di rami che si allungavano al suolo e tetti a volta di verde scintillante, la conscia terra lo adorò con erba che ondeggiava e un improvviso spuntare di fiori ai suoi piedi.
I rami della foresta si chinarono a fargli ombra; dal fiume emanavano freschi aliti di vento carichi dei profumi del loto, alitati dagli dei dell'acqua.
Grandi occhi, pieni di sorpresa, delle creature del bosco, la pantera, il cinghiale e il daino, in pace al crepuscolo, fissarono intenti il suo volto benigno dalla caverna e dal folto.
Dalla sua fredda fenditura il chiazzato e mortale serpente fece danzare le sue spire in onore del Signore; brillanti farfalle svolazzavano agitando le loro ali azzurre, verdi e oro come a fargli da ventaglio; il fiero falcone lasciò cadere la sua preda e lanciò il suo grido; lo scoiattolo striato corse di ramo in ramo a vedere: l'uccello tessitore cinguettò dal suo nido oscillante; la lucertola corse; il koil cantò il suo inno; le colombe si affollarono intorno; persino gli esseri striscianti erano consapevoli e felici.
Voci dalla terra e dall'aria si unirono in una sola canzone che alle orecchie che udivano diceva: "Signore ed Amico! Amante Salvatore! Tu che hai soggiogato l'ira e l'orgoglio, i desideri, le paure, i dubbi, tu che per ciascuno e per tutti hai dato te stesso, vai all'albero! Il triste mondo ti benedice, tu che sei il Buddha che calmerà i suoi dolori. Vai, Venerato ed Onorato! Fai il tuo ultimo sforzo per noi, Re e grande Conquistatore! La tua ora è giunta! Questa è la Notte che le epoche hanno atteso!"
Allora, mentre il Maestro sedeva sotto quell'Albero, cadde la notte. Ma colui che è il Principe dell'Oscurità, Mara, sapendo che quello era il Buddha venuto a riscattare gli uomini e che quella era l'ora in cui avrebbe dovuto scoprire la Verità e salvare i mondi, diede azione a tutti i suoi poteri malefici.
Perciò, si affollarono da ogni profondo abisso i demoni che combattono la Saggezza e la Luce, Arati, Trishna, Raga e la loro legione di passioni, orrori, ignoranza e lussuria.
I figli delle tenebre e del terrore; tutti odiavano il Buddha e cercavano di scuotere la sua mente; nessuno può dire, nemmeno il più saggio, come quei demoni infernali combatterono quella notte per tenere lontana la Verità dal Buddha: qualche volta con i terrori della tempesta, raffiche provocate da armate di demoni che oscuravano l'aria, con tuoni e con accecanti lampi lanciati come giavellotti di ira purpurea dai cieli che si squarciavano; talvolta con stratagemmi e parole che risuonavano piacevoli in mezzo a foglie
sussurranti e brezze dolci, con forme di incantevole bellezza; canzoni ammalianti, sussurri d'amore; qualche volta con tentazioni reali di offerte di comando; qualche volta con dubbi di scherno che rendevano vana la verità.
Ma che tutto questo accadesse all'esterno e fosse visibile o che Buddha combattesse con spiriti crudeli nei recessi del suo cuore, giudicate voi: poiché io scrivo ciò che gli antichi testi hanno descritto.
Vennero i dieci Peccati principali, i più potenti, di Mara, gli angeli del male. Innanzitutto Attavada, il Peccato del Sé che, nell'Universo, come in uno specchio, vede soltanto il suo volto e gridando "io" vorrebbe che il mondo dicesse "io" e che tutte le cose periscano se questo deve essere, affinché egli possa continuare.
"Se tu devi essere il Buddha," disse, "che gli altri brancolino nel buio, privi di luce. È sufficiente che tu sia immutabile; alzati e accetta la beatitudine degli dei che non cambiano; non darti pena, non sforzarti."
Ma Buddha disse: "Il giusto, in te è meschino, l'errore, in te è una maledizione; inganna coloro che amano soltanto se stessi."
Poi venne l'arido Dubbio, che tutto nega, il peccato che schernisce e questi sibilò all'orecchio del Maestro: "Tutte le cose sono spettacoli transitori e vana è la conoscenza della loro vanità; tu non fai altro che inseguire l'ombra di te stesso; perciò alzati e vai, non c'è modo migliore della paziente derisione, né alcun aiuto per l'uomo, né alcun arresto di questa ruota turbinante."
Ma citò il nostro Signore: "Tu non hai nulla a che
fare con me, falso Visikitcha, tu che sei il più sottile dei nemici dell'uomo."
E per terza arrivò colei che dà agli oscuri credi il loro potere, Silabbat-paramasa, l'incantatrice, meravigliosamente vestita, in molte terre adorata come fede inferiore, ma che sempre gioca con le anime che inganna con riti e preghiere; guardiana di quelle chiavi che chiudono gli inferni e aprono i cieli.
"Oserai," ella disse, "mettere da parte i nostri sacri libri, spodestare i nostri dei, svuotare i templi, scuotere quella legge che nutre i preti e sostiene i regni?"
Ma Buddha rispose: "Ciò che tu mi esorti a sostenere è la forma che passa, ma la libera Verità rimane; ritorna nella tua oscurità."
Poi si avvicinò fieramente un tentatore ancor più abile, Kama, il Re delle passioni, che ha dominio sugli dei stessi, signore di tutti gli amori, sovrano del Regno del Piacere.
Arrivò ridendo all'albero, portando il suo arco d'oro inghirlandato di boccioli rossi e le sue frecce del desiderio appuntite con cinque delicate fiamme che feriscono il cuore più acutamente delle frecce avvelenate: e con lui giunse, in quel luogo solitario, un corteo di brillanti forme con occhi celestiali e labbra che cantavano con graziose parole le lodi dell'Amore, con l'accompagnamento della musica di invisibili dolci corde, così accattivanti che sembrava che la notte fosse immobile per ascoltarle e che le stelle e la luna arrestassero le loro orbite mentre veniva cantato al Buddha di perdute delizie, di come un uomo mortale non trova nulla di più caro, nei tre vasti mondi, dell'arrendevole e amorevole fragrante seno della Bellezza e dei suoi rosei boccioli, i rubini dell'amore.
Di come non potrà trovare, il tatto, nulla di più alto di quella dolce armonia di forma che si vede nelle linee e nel fascino della grazia indicibile e che tuttavia parla, anima ad anima e fa sussultare il sangue, adorata dalla volontà che si slancia per conseguirla, conoscendo che questo è il cielo migliore, più vero, dove i mortali sono simili a dei, Creatori e Padroni, che questo è il dono dei doni, sempre nuovo e per il quale si possono pagare mille pene.
Poiché chi si è angosciato quando tenere braccia l'hanno stretto al sicuro e tutta la vita si è sciolta in un felice sospiro e tutto il mondo è stato abbandonato in un dolce bacio?
Così esse cantavano, con lieve danzare di mani che richiamavano, occhi accesi da fiamme d'amore, sorrisi allettanti; in graziosa danza i loro flessuosi fianchi ed arti si rivelavano e si nascondevano, come boccioli che mostrano il loro colore, ma ancora nascondono i loro cuori.
Mai così incomparabile grazia deliziò l'occhio, mentre schiere dopo schiere di queste danzatrici della mezzanotte ondeggiavano sempre più vicine all'Albero, ognuna più bella dell'altra, mormorando: "O grande Siddhartha! Io sono tua, assaggia la mia bocca e vedi se la gioventù non è dolce!"
E quando ancora nulla muoveva la mente del Maestro, ecco: Kama ondeggiò il suo magico arco e il gruppo di danzatrici si aprì e la forma più bella ed altera del gruppo si mostrò nella forma della dolce Yasodhara.
Nella tenera passione, quei dolci occhi bruni sembrarono brillare di lacrime; bramando, quelle braccia aperte si estesero verso di lui; e musica era quel gemito con cui la magnifica ombra chiamò il suo nome singhiozzando: "Mio Principe! Io muoio per la tua mancanza! Quale cielo hai scoperto simile a quello che conoscevamo vicino al brillante Rohini, nella casa dei piaceri, dove in tutti questi lunghi anni io ho pianto per te?
"Ritorna, Siddhartha! Ah, ritorna! Ma tocca ancora le mie labbra, lascia che io appoggi il mio capo sul tuo petto una volta ancora e questi infruttuosi sogni termineranno! Ah, guarda! Non sono forse colei che tu amasti?"
Ma Buddha disse: "Bella e falsa ombra, è vano il tuo implorare per quella tua dolce creatura; non ti maledico, poiché rivesti una forma così cara; tuttavia, proprio come sei tu, così sono tutti gli spettacoli terreni. Ritorna ancora nel tuo vuoto!"
Poi un grido echeggiò attraverso la foresta e tutta quella moltitudine svanì una scia di fiamme ondeggianti e sentieri di vapori nebbiosi.
Poi, sotto i cieli che si oscuravano e nel rumore di nascente tempesta, arrivarono Peccati più sinistri: l'ultimo tra i dieci, Patigha, l'Odio, con serpenti avvolti attorno ai fianchi che succhiavano latte velenoso dai suoi seni pendenti e mischiavano i loro irati sibili con le sue maledizioni.
Ma poco ella poté restare accanto a quel Santo che con i suoi calmi occhi rese mute le sue amare labbra, mentre i suoi neri serpenti, ritraendosi, nascondevano i loro denti.
Poi venne Ruparaga, la lussuria, quel peccato
sensuale che per avidità di vita dimentica di vivere; poi venne l'avidità della fama, la più nobile Aruparaga, il cui incantesimo affascina il saggio, madre di azioni audaci, battaglie e sforzi.
E venne l'altezzoso Mano, il demone dell'orgoglio; e Uddhachcha, la fierezza della propria rettitudine; poi, con un mostruoso gruppo di cose vili e senza forma che strisciavano e svolazzavano come pipistrelli, comparve l'ignoranza, la Madre della Paura e dell'Errore, Avidya, orribile strega i cui passi rendevano la notte più buia mentre le montagne venivano scosse, i venti ululavano, le nubi squarciate lasciavano cadere torrenti di pioggia illuminati dalla saetta, le stelle cadevano dai cieli, la solida terra tremava come se tra le sue ferite fossero state accese le fiamme.
L'aria annerita era piena di ali sibilanti, di grida e urla, di volti maligni che spiavano, di vasti profili terribili e maestosi, signori dell'inferno che da mille limbi guidavano le loro truppe a tentare il Maestro.
Ma Buddha non prestò attenzione, sedendo sereno, con perfetta virtù a protezione, simile a una fortezza, con cancelli e bastioni.
Persino il sacro Albero, l'Albero della Bodhi, in mezzo a quel tumulto non si mosse, ma ciascuna foglia scintillava immobile come quando, nelle sere di luna piena, nessuna brezza fa cadere le brillanti gemme di rugiada; poiché tutto questo clamore infuriava all'esterno dell'ombra diffusa da quei rami intrecciati a forma di chiostro.

Alla terza veglia, mentre la terra era tranquilla, le legioni infernali fuggirono e, mentre la luna calante
alitava una dolce brezza, il nostro Signore conseguì Samma-sambuddh.
Per mezzo di quella luce che risplende al di là del mondo mortale, egli vide la lunga fila di tutte le sue vite in tutti i mondi, lontano, più lontano e ancora più lontano, cinquecentocinquanta vite.
Come colui che riposando sulla cima di una montagna osserva il suo sentiero che si snoda a fianco di precipizi e burroni, passando attraverso fitti boschi ridotti ad una macchia; attraverso paludi che brillano di un falso verde; giù nelle cavità dove s'affannò senza respiro; su vertiginosi strapiombi dove i suoi piedi scivolarono; al di là dei prati assolati, la cascata, la caverna e la pozza d'acqua, al di là di quelle pianure oscure da dove balzò a raggiungere il cielo blu.
Così Buddha scorse gli scalini della vita che si innalzavano, collegati l'uno all'altro da livelli inferiori dove il respiro è meschino, fino alle più alte pendici dove le dieci grandi Virtù attendono per condurre l'arrampicatore verso il cielo.
Inoltre, Buddha vide come la nuova vita raccoglie ciò che la vecchia vita ha seminato; come dove s'interrompe la sua marcia quella nuova ricomincia, trattenendo il guadagno e rispondendo della perdita; e come in ciascuna vita il bene produce ulteriore bene, il male un nuovo male.
La morte segna il debito e il credito, cosicché il conto di meriti o demeriti vengono registrati con sicuri conti aritmetici, dove nulla è lasciato cadere, certo e giusto, e si ritrova in ogni nuova vita; per la quale si trovano riuniti e calcolati i passati pensieri e le passate azioni, gli sforzi e i trionfi, le memorie e i segni di vite
dimenticate.
Nella veglia mediana, il nostro Signore conseguì Abhidjna: vasta conoscenza che si erge al di là di questa sfera, fino a regioni senza nome, sistema dopo sistema, in innumerevoli mondi e soli che si muovono in spazi splendidi, raggruppati nella loro divisione, una sola cosa e tuttavia separati, isole d'argento in un mare di zaffiro senza rive, inscandagliabile, senza limiti, percorso da onde che si srotolano in irrequieti cavalloni di mutamento.
Egli vide quei Signori della Luce che vincolano a sé i loro mondi per mezzo di legami invisibili e come essi stessi girano obbedienti attorno ad orbite più potenti, che servono splendori più profondi, mentre da stella a stella lampeggia l'incessante splendore della vita, da centri che continuamente si muovono in cerchi che non conoscono limite.
Di tutti quei mondi, ciclo dopo ciclo, egli scorse con visione priva di sigilli tutta la storia di kalpa e mahakalpa, termini di tempo che nessun uomo afferra, anche se sa contare le gocce del Gange dalla sua sorgente al mare.
Il modo in cui essi nascono e muoiono; come ciascuno, in questa schiera celeste, realizza la sua splendente vita e muore in modo oscuro; tutto ciò per cui la parola non trova misure, sakwal dopo sakwal, egli attraversò profondità e altezze trasportato nell'infinito blu.
E dietro ad ogni modalità di espressione, al di sopra di tutte le sfere, al di là del bruciante impulso di ogni orbita, egli scorse quel fermo decreto che, lavorando silenziosamente, ordina l'evoluzione del buio
verso la luce, della morte verso la vita, del vuoto verso la pienezza, per formare ciò che non ha ancora forma, l'evoluzione del bene verso il meglio e del meglio verso il migliore, con un editto senza parole; dove non c'è nessuno ad ordinare, nessuno a proibire, poiché questo è al di sopra di tutti gli dei, immutabile, indicibile, supremo; un Potere che costruisce, distrugge e costruisce ancora, governando tutte le cose secondo la regola della virtù che è bellezza, verità ed evoluzione.
Cosicché tutte le cose fanno il bene quando servono il Potere e il male quando lo ostacolano; il verme segue il bene obbedendo alla natura della sua specie; il falco segue anch'egli la sua natura quando trasporta prede sanguinanti ai suoi piccoli; la goccia di rugiada e la stella splendono fraternamente, assumendo forma di globo, nel lavoro comune; e l'uomo, che vive per morire, muore per vivere bene se guida i suoi passi in modo impeccabile, con la ferma volontà di non ostacolare, ma di aiutare tutte le cose grandi e piccole che sopportano le pene della vita. Questo vide il Buddha nella veglia mediana.
Ma quando venne la quarta veglia arrivò il Segreto del Dolore, che con il male ostacola la legge, come il metallo e le scorie ostacolano il fuoco dell'orefice.
Allora il dukha-satya, la verità del dolore, la prima delle "Nobili Verità" gli si aprì; vide come il Dolore è l'ombra della vita e si sposta con essa.
Non potrà essere messo da parte fino a che uno non metterà da parte il vivere, con tutti i suoi stati mutevoli, la nascita, la crescita, il decadimento, l'amore, l'odio, il piacere, il dolore, l'esistere e il fare.
Vide come nessuno può evitare queste tristi delizie e piacevoli angosce se manca di quella conoscenza che gli permette di conoscere le loro trappole; ma colui che conosce avidya - l'illusione - scioglie quei lacci, non ama più la vita, ma insegue la liberazione.
Gli occhi di costui sono spalancati; egli vede che l'Illusione nutre Sankhara, la Tendenza Perversa: Vidnnan - l'Energia delle Tendenze - dalle quali viene Namarupa, forma, nome e incarnazione, mettendo l'uomo con i sensi nudi di fronte al sensibile, specchio impotente di tutti gli spettacoli che attraversano il suo cuore; e così cresce Vedana - il senso della vita - falso nella sua contentezza, crudele nella tristezza, infelice o contento, la Madre del Desiderio, Trishna, quella sete che fa sì che il vivente si abbeveri sempre più profondamente nelle false onde saline dove fluttuano i piaceri, le ambizioni, la ricchezza, la gloria, la fama o la dominazione, la conquista, l'amore; ricchi cibi e sontuose vesti, magnifiche dimore e l'orgoglio di antiche dinastie; giorni lussuriosi e intensa aspirazione alla vita e i peccati che fluiscono da essa, alcuni dolci, alcuni amari.
Così la sete della vita viene calmata con bevande che raddoppiano questa sete; ma colui che è saggio strappa dalla sua anima questo Trishna, non nutre più i sensi di falsi spettacoli, impegna la sua ferma mente a non cercare, a non sforzarsi, a non cadere nell'errore, sopportando docilmente tutti i mali che fluiscono da errori di un lontano passato e frena le passioni, cosicché esse muoiono per mancato nutrimento.
Cosicché tutta la somma della vita, il Karma - tutto quell'insieme di un'anima che consiste delle cose che fece, dei pensieri che ebbe, il "sé", che fu tessuto con
collane di invisibile tempo, tessuto nell'ordito non scrutabile degli atti - non diventi puro e senza peccati; cosicché non abbia mai più bisogno di trovare un corpo e un luogo o che la nuova esistenza trovi il fardello sempre più leggero, per diventare inesistente e così "terminare il Sentiero".
Libero dagli inganni terreni, sciolto dalle armature della carne; spezzati i legami - gli Upandanas- salvato dal vorticoso girare della ruota; risvegliato e sano come un uomo uscito da odiosi sogni; finché - più grande dei Re, più felice degli dei! - termina la folle agonia del vivere e la vita scorre, al di là della vita in una quiete senza nome, in una gioia senza nome, nel beato Nirvana - al di là dei peccati, nel perfetto riposo - in quel cambiamento che non cambia mai!
Ecco! L'alba si levò con la vittoria di Buddha! Ecco! All'Oriente fiammeggiarono i primi fuochi di un magnifico giorno che si riversano attraverso le fuggevoli pieghe del nero mantello della Notte.
In alto, nel vasto blu, la stella del mattino sbiadiva in un pallido argento, mentre si levavano sempre più brillanti strisce di un chiarore rosato.
In lontananza, le colline in ombra videro il Grande Sole e prima che il mondo ne fosse consapevole, le loro creste si rivestirono di cremisi; i fiori, uno dopo l'altro, cominciarono a sentire il caldo alito del mattino e ancora dischiusero i loro teneri petali.
Sull'erba lucente si allungava a rapidi passi la graziosa Luce, volgendo le lacrime della Notte in gioiose gemme, decorando la terra di splendore, ricamando le nuvole di tempesta con un orlo dorato mentre svanivano; rilucendo come oro sulle palme che ondeggiavano in felice saluto; scoccando raggi d'oro nelle radure; toccando con magica bacchetta il fiume, traendone riflessi color rubino; trovando nella macchia i dolci occhi delle antilopi, dicendo loro: "È giorno"; toccando, nei nidi, le piccole teste coperte da molte ali e sussurrando loro: "Figli, lodate la luce del giorno!"
Al che, tutti gli uccelli cinguettarono le loro canzoni! La canzone flautata del koil, l'inno del bulbul, il "mattino" del tordo, il cinguettio dell'uccello-sole che si slanciava a trovare il miele mentre le api erano fuori, il gracchiare del corvo grigio, l'urlo del pappagallo, i colpi del picchio verde, il trillo del myna, i discorsi d'amore senza fine delle colombe: sì! Così santa era l'influenza di quella elevata alba in cui giunse la vittoria che, lontano e vicino, nelle case degli uomini si sparse una pace sconosciuta.
L'assassino nascose il suo coltello; il rapinatore abbandonò la sua preda; l'usuraio tralasciò il suo interesse; tutti i cuori malvagi diventarono gentili, i cuori gentili ancor più puri, mentre il balsamo di quel divino albeggiare illuminava la Terra.
I Re impegnati in crudeli guerre annunciarono una tregua; gli uomini ammalati si alzarono ridendo dai loro letti di dolore; il morente sorrise come se sapesse che quel Felice Mattino era sgorgato da fontane più lontane del lontano Oriente; e nel cuore della triste Yasodhara, che sedeva sconsolata sul letto del Principe Siddhartha, venne improvvisa la beatitudine, come se l'amore non potesse fallire, né il dolore mancare di terminare nella gioia.
Il Mondo era così contento - sebbene non sapesse perché - che negli aridi deserti risuonarono canzoni di gioia, la voce dei Preta e dei Bhuta (spiriti e fantasmi) senza corpo che annunciavano il Buddha; e i Deva, gli dei, nell'aria, gridavano: "È finito, è finito!"
E i preti stettero con il popolo meravigliato nelle strade ad osservare quegli splendori dorati che inondavano il cielo, dicendo: "Dev'essere accaduto qualcosa di grandioso."
Persino nella giungla, quel giorno, crebbe l'amicizia tra le creature: il daino maculato pascolava senza timore dove la tigre nutriva i suoi cuccioli e il chitah, il leopardo, lambiva lo stagno al fianco del cervo; sotto la roccia dell'aquila scorrazzavano le lepri brune, mentre il suo crudele becco riposava sotto un'ala oziosa; il serpente riscaldava i suoi gioielli al raggio del sole con le mortali spire ritirate; il falcone lasciava passare il fringuello; gli alcioni di smeraldo sedevano sognanti mentre i pesci giocavano al di sotto; il merlo non sfrecciava più, sebbene le farfalle - cremisi, blu e ambra - svolazzassero numerose attorno al suo ramo.
Lo Spirito del Buddha si distendeva potente sull'uomo, sull'uccello e sulla bestia, anche mentre egli meditava sotto quell'albero della Bodhi, glorificato dalla Conquista guadagnata per tutti e illuminato da una Luce più grande di quella del Giorno.
Poi egli si alzò - radioso, beato, forte - al di sotto dell'Albero e levando alta la sua voce parlò così, affinché tutti i Tempi e tutti i Mondi udissero:

Anekajatisangsarang
Sandhawissang anibhisang
Gahakarakangawesanto
Dukkajatipunappunang
Gahakarakadithosi;
Punagehang nakahasi;
Sabhatephasukhabhagga,
Gahakutangwisang khitang;
Wisangkharagatang chittang;
Janhanangkhayamajhaga.

MOLTE CASE DI VITA MI TRATTENNERO, MENTRE SEMPRE HO CERCATO COLUI CHE CREO QUESTE PRIGIONI DEI SENSI, PIENE DI DOLORE; SOFFERENTE FU IL MIO INCESSANTE SFORZO!
MA ORA, COSTRUTTORE DI QUESTO TABERNACOLO, - TU! - TI CONOSCO! NON COSTRUIRAI MAI PIÙ QUESTE MURA DI DOLORE, NE RIALZERAI IL TETTO E L'ALBERO DEGLI INGANNI, NE POSERAI NUOVE TRAVI SULL'ARGILLA; È CROLLATA LA TUA CASA E L'ARCHITRAVE È SPEZZATA!
ERA STATA FORMATA NELL'ILLUSIONE! SICURO M'INCAMMINO OLTRE, PER OTTENERE IL RISCATTO.

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