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Inserito il - 17/10/2023 : 09:43:35
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Dukkha - La sofferenza - Significato
Dukkha significa il dolore, la pena, la sofferenza. E' una caratteristica dominante nel mondo in cui viviamo. Secondo Buddha, il solo fatto di vivere è marcato dall'attributo di dukkha, che rappresenta la pena che si manifesta in ogni forma. Può trattarsi della pena che si prova nella tristezza, nella miseria, o nelle difficoltà della vita. Può essere anche la pena che si risente quando si è saturi di piacere, a tal punto che l'oggetto del diletto diviene esso stesso disgustoso e repulsivo. E' la pena di venire separati da chi si ama, ma anche quella di dovere sopportare coloro che non amiamo. E' la pena di non potere vivere in luoghi in cui vorremmo stare ed anche quella di essere obbligati a soggiornare in posti dove non vorremmo stare.
In una maniera, o nell'altra, che lo si voglia oppure no, numerose situazioni in cui ci veniamo a trovare sono penose. Buddha è stato, a volte, accusato di essere pessimista, a causa di questa affermazione e si dice che, comunque, il mondo non è così penoso, perchè esiste la speranza. La speranza di una vita migliore, di guadagnare un posto in paradiso, di creare una terra più felice, di costruire un ambiente che sia più umano, più equilibrato. Quando le persone affermano questo – ossia, che il mondo non è così sciagurato, proprio perchè esiste la speranza, Buddha, nel suo insegnamento, ha la tendenza ad affermarci che è proprio perchè vi è la speranza che tale fatto indica una terra ben più sfortunata di quanto non si pensi.
La speranza in un avvenire migliore
Così, molti individui vivono nella fiducia in un avvenire migliore, e, codesta, è già una maniera di riconoscere che il presente non è, poi, così gradevole come sembra. Sfortunatamente, possiamo constatare che il mondo è pieno di difficoltà. Per alcuni, si tratta di sofferenze insopportabili; certi debbono subire malattie molto gravi, molto dolorose. Altri vivono sotto l'oppressione di governi folli; o subiscono degli incidenti, delle catastrofi. Mentre, alcuni, anche se non si riscontrano con dei malesseri così crudeli, sperimentano nella propria vita tutta una serie di sofferenze quotidiane, come essere costretti a lavorare in un'azienda, con delle persone che non amano; come la difficoltà di perdere un parente prossimo, trovarsi ammalati; o, ancora, subire la pena che si prova, quando si scoprono le sofferenze altrui.
Questa è la ragione per cui buona parte dell'umanità – quasi tutta – ha, durante i secoli, immaginato un paradiso eterno, meraviglioso, dove tutti vivono una felicità perfetta. Per alcuni, questo paradiso è la democrazia, quando si trovano in un paese oppresso da un regime totalitario. Per altri, sono la ricchezza e la prosperità – quando abitano un paese molto povero, nel quale debbono lavorare molto per guadagnare poco. Per certi, è il paradiso artificiale della droga, allorché essi vivono in angustie personali, o in problemi esistenziali. Per altri, si tratta di un paradiso idilliaco, che viene proposto al popolo, quando se ne sfrutta il lavoro, e si fa parte del clero religioso. D'altronde, alcune religioni – compreso il buddhismo – non sembrano sfuggire a questa regola.
Così, abbiamo la tendenza ad immaginare, a proiettare nell'avvenire, ed anche nello spazio, un mondo migliore. Ciò che di buono esiste in questo schema è che esso parte dalla constatazione che la terra in cui viviamo oggi è penosa; ed è già un bene. L'inconveniente di tutto ciò è che gli umani divengono incapaci di costruirsi una vita decente che riguardi l'oggi. Di modo che essi tendono a distogliersi da una realtà quotidiana – che debbono accettare – a causa di un avvenire di fantasia, che si fabbricano.
Coloro che immaginano delle cose
Ho veduto molta gente in Birmania: ricchi e poveri, colti ed illetterati, uomini e donne, giovani e vecchi. E sono rimasto molto sorpreso nel constatare che queste persone credevano che – visto che nella loro vita avevano offerto dei fiori, delle candele, un computer, o un fotocopiatore a dei monasteri, o a dei monaci; del denaro a delle statue, della frutta per degli spiriti – dopo la morte sarebbero andate in un paradiso qualunque. Immaginavano che li attendeva un magnifico mondo, dove non avrebbero conosciuto più la povertà, la malattia, la pena della vita quotidiana.
E' sorprendente osservare questo comportamento in Birmania, tanto più che questo paese è, a mia conoscenza, l'ultimo posto al mondo in cui si possa trovare ancora l'insegnamento originale di Buddha. Non ci sono unicamente i testi, poiché questi stanno anche a Washington.
Coloro che hanno compreso l'insegnamento
Ci sono, però, in Birmania, degli uomini e delle donne – che, beninteso, sono molto pochi – i quali hanno assimilato e messo in pratica questo insegnamento e, suppongo, lo hanno realizzato in sè. Cioè, delle persone che sono giunte, nella loro vita quotidiana, oggi, a non più sognare il paradiso, nè ad immaginarsi un ipotetico mondo migliore. Ma, a costituirsi, nel presidente, nelle difficoltà, nelle inevitabili turpitudini della vita, un'esistenza decente, confortevole, e assai felice.
Si trovano simili persone, in Birmania; ne sono convinto: dei monaci, dei laici, degli uomini, delle donne, dei giovani, dei vecchi, ecc. Malgrado la presenza di questi individui, che Buddha chiamava degli "esseri nobili", esiste ancora una popolazione di gente (in tutti gli angoli della terra) che crede in ogni sorta di superstizione. Persone che suppongono di potersi comperare un avvenire felice, un paradiso. E' veramente triste, perché, quando Buddha ci ricordò – perché non è lui che ce lo ha appreso – che il dolore, sotto tutte le sue forme, è una caratteristica generale del mondo, non ha, nel contempo, intrattenuto i suoi uditori nel sogno di un avvenire che canta, di un mondo migliore. Ha avuto l'onestà intellettuale di metterci in guardia, di fronte al fatto che non possiamo comprarci il nostro posto in paradiso.
La cessazione della sofferenza
La cessazione, piuttosto che l'acquisizione
Secondo lui il punto fondamentale non è l'acquisizione della felicità. Il punto più importante è di arrivare alla fine, alla cessazione, all'estinzione, alla sparizione della pena. D'altronde, quando ci dice di cosa è composto il mondo, secondo lui, egli afferma che è fatto di dukkha, che è la pena, il dolore. Ci dice anche che esiste una causa ad essi e, poichè esistono pena e dolore, vi è la possibilità di una loro fine. Così come c'è la malattia, ma anche la guarigione. Poichè, se non vi fosse malattia, non ci sarebbe neppure guarigione.
Non ci presenta, quindi, la felicità, la vita eterna. il fatto di andare nei mondi divini come l'alternativa, la soluzione, la risposta al problema del dolore. Ci dice che l'alternativa è la fine della sofferenza. Proprio come l'alternativa alla luce è l'oscurità; non c'è altro. Per Buddha, l'alternativa alla sofferenza è la cessazione della stessa; e basta.
Per esempio, noi sappiamo che il contrario del caldo non è il freddo. Ciò che noi chiamiamo "freddo", è in realtà "meno caldo". E' una maniera di parlare, una convenzione, quando si oppone il "freddo" al "caldo". E' come "grande" e "piccolo". Infatti, "piccolo" non è il contrario di "grande"; è semplicemente "meno grande"; è anche un modo di parlare. Quando si dice di un immobile: "Questo immobile è grande", qual è il contrario di un immobile grande? E' forse un immobile piccolo? Certo che no; poiché immobile piccolo significa un immobile "meno grande". Un immobile che crediamo piccolo rimarrà, comunque, grande per un insetto.
Il contrario, riferito ad un immobile – che sia grande o piccolo – è l'assenza di immobile. L'alternativa al calore è l'assenza di calore, l'assenza di temperatura (questo è un fenomeno che gli esseri umani non sperimenteranno mai, poichè sulla terra, le cose più fredde hanno ancora una temperatura).
La soluzione
L'alternativa, la soluzione, per quanto riguarda la questione del dolore, è la sua assenza. Più semplice di così! Ecco perchè nell'insegnamento di Buddha, l'insegnamento originale, tale quale lo si incontra nelle scritture del theravada, non si parla tanto di felicità, ma molto della cessazione del dolore: nirodha. Per giungere alla cessazione del dolore, secondo lui, non vi è gran cosa che noi si possa fare. Difatti, non lo si può scacciare. Esso non è una cosa che si riesca ad acchiappare, isolare, separare e togliere. Non si può paragonare alla sporcizia della biancheria. Quando si prende della lingerie sudicia, la si lava, le si toglie il grasso e si ottiene quella pulita. Con il dolore non funziona proprio così.
Secondo Buddha, per giungere alla fine della sofferenza basta semplicemente cessare di crearla, smettere di produrla. Visto che non la si può asportare è necessario evitare di fabbricarla. Per evitare di costruire della sofferenza, è sufficiente semplicemente arrestare quel che ne è la causa. Esattamente come per il fuoco, non possiamo prenderlo e toglierlo via. Se noi vogliamo spegnere un fuoco, dobbiamo semplicemente arrestare quanto è responsabile della sua esistenza. Quel che è la causa della sua presenza, il carburante che è attivo. Un carburante che, bruciando, produce fuoco. Ecco perchè, quando vogliamo spegnere un fuoco, non possiamo solo togliere via le fiamme. Quando si getta acqua su un fuoco di legna, questa non è un elemento che va a spegnere le fiamme – ciò è stato ben studiato scientificamente. Ma, l'acqua va a raffreddare la legna, che sta bruciando. E, visto che la legna si raffredda, essa non produrrà più del gas, delle essenze infiammabili. Ridiventerà fredda e, per tale ragione, le fiamme spariranno.
Allo stesso modo, non basta estirpare le cellule cancerose per curare un cancro, poichè ne nasceranno delle nuove. Bisogna trovare un rimedio che ne impedisca l'apparizione. Se no, non giungeremo a guarire la malattia.
Similmente, se vogliamo giungere alla fine della pena, del dolore, non possiamo afferrarli, ficcarli in una rete e gettarli via. Però, possiamo smettere di alimentarli. Possiamo arrestare la molteplicità di cause che ci conducono ad essi.
La via da seguire
Le fondamenta della via della liberazione
Buddha ci ha dato delle spiegazioni molto chiare, tecnicamente assai facili da mettere in atto, per arrestare le cause delle nostre miserie, delle nostre difficoltà, delle nostre dolenze. A cominciare già da noi stessi. Ognuno può iniziare il lavoro da sè. Più esisteranno delle persone sane, "guarite", delle persone equilibrate, cioè quelle che Buddha chiamava degli "esseri nobili" e meglio la società si comporterà. Fatto che non dovrà impedire alle buone volontà di cercare delle soluzioni economiche, umanitarie, scientifiche, mediche, per alleviare le sofferenze del mondo. Come abbiamo potuto constatarlo, questo non basta.
Per andare più lontano e giungere ad un mondo che soffra di meno, bisogna prima cominciare a lavorare su di noi.
Il lavoro che ci viene richiesto necessita di un minimo di controllo, di disciplina personale, di vigilanza, soprattutto quando si vive in un mondo, in cui si è circondati da un ambiente che non procede in direzione della salute e del benessere. Una volta che si intraprende, in tal senso, una direzione, ci si scontrerà, allora, con numerose contraddizioni. Molti, attorno a noi, credono che quanto essi fanno è bene, è buono; ed agiscono sperando sempre di raggiungere la felicità. Si tratta di obiettivi, però, che li sommergono e contribuiscono a creare uno stato assai miserabile della società.
Invece, noi che seguiamo la via del Buddha, abbiamo compreso che non era necessario fare delle cose per correre dietro alla felicità; ma, è, piuttosto, preferibile cessare di creare ciò che, inevitabilmente, porta la gente in disgrazia. Ecco perchè Buddha propone, nella sua medicina, di cessare di fare delle cose nefaste, che sono malsane e generano pena; di cominciare a fermarci dal fare del male. Modo di essere che necessita di una certa vigilanza e di un certo autocontrollo.
La tappa seguente
Una volta che abbiamo spazzato il terreno, nella nostra quotidianità, smettendo di commettere del male, delle cose malsane – azioni che generano della sofferenza – possiamo intraprendere quel che è sano e benefico, per avanzare nell'evoluzione. Quando cessiamo di commettere del male, non abbiamo strappato le radici della sofferenza. Abbiamo solo tagliato l'albero. Per estirpare le radici bisogna andare piu' avanti. L'astenersi non basta; è anche necessario produrre delle azioni e delle attitudini sane, positive ed abili. Questo ci permetterà di andare più lontano. Tuttavia, per arrivare all'estirpazione finale, bisogna anche educare la mente.
Il trattamento finale
La disciplina finale, che deve portare gli individui alla libertà finale, alla nobiltà, è quello che chiamiamo lo stabilirsi dell'attenzione – satipa#7789;#7789;hana. Questa disciplina necessita di un totale investimento della nostra persona. Che si attua, durante un ritiro intensivo, il quale può durare diverse settimane, o diversi mesi. e che condurrà all'esperienza del risveglio.
Bisogna, dunque, procedere nell'ordine e per tappe successive. Buddha ce ne ha dato le istruzioni...
s#299;la, samadhi, panna
Abbandonare ogni atto nocivo, coltivare quelli sani e, infine, sviluppare la mente. Lasciare le azione negative può divenire possibile tramite sila, che è la virtù. La virtù, significa sapersi controllare, comportare e gestire. Significa proibirsi di fare delle cose non giuste e negative, come il rubare, l'uccidere, la violenza, la maldicenza, la menzogna, l'adulterio, il consumare droghe, ecc.
Produrre degli atti buoni, sani, è cosa possibile se si sviluppa una facoltà della presenza, dell'attenzione e della concentrazione in quanto si sta facendo, quando il nostro spirito non è distratto.
Infine, far crescere la saggezza, la conoscenza, l'intelligenza é quel che Buddha chiama l'educazione della mente, che porta alla liberazione. Questo si consegue con l'allenamento a satipatthana.
Abbiamo, quindi i tre freni: s#299;la, samadhi e panna. Corrispondono, in breve, all'abbandonare gli atti malsani, coltivare quelli sani e disciplinare la mente. Questa fu la via scoperta da Buddha e, secondo lui, la sola che porta gli individui alla liberazione, alla fine della pena, dello stress e del dolore, qui, direttamente nel mondo attuale, nelle nostre vite quotidiane, per ognuno di noi.
Possiate, voi che ascoltate questo insegnamento oggi, e possano coloro che non lo ascoltano, incontrarlo un giorno, comprenderlo, analizzarlo, metterlo in pratica e, infine, possa il maggior numero di esseri al mondo giungere all'esperienza liberatrice del risveglio, che è la fine della sofferenza, che è dukkha nirodha.
da lista_sadhana
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